L’AQUILA: SOGGETTI IN FORMAZIONE E GENERAZIONE PRECARIA

stdenet

 

 

 

 

 

 

 

Di Ilaria Iapadre , dirigente nazionale dell’Unione degli studenti e della Rete della Conoscenza

Lo stato in cui oggi sono ridotte scuole e università è lo specchio delle politiche di austerità e privatizzazione che da tempo l’Italia sta sperimentando. L’obbligo del pareggio di bilancio e della riduzione del deficit pubblico, che l’austerità impone, comportano innanzitutto tagli massicci al welfare e ai diritti (istruzione, sanità, trasporti,…), considerati sprechi inutili che rallentano la crescita. Anni di tagli hanno causato nuovi danni agli edifici scolastici e alle condizioni di chi vive quotidianamente la scuola, e  una vera e propria espulsione di massa dai luoghi della formazione. Col passare del tempo si ergono barriere di accesso ai saperi sempre più difficili da valicare: costo proibitivo dei libri e dei trasporti, contribuzione “volontaria”, assenza di fondi per le borse di studio, costi sempre più alti dei canali informali di apprendimento (cinema, teatro, cd, dvd,…). Le politiche di disinvestimento e la centralità conferita alla contribuzione delle famiglie nel sostentamento degli istituti ci danno la dimensione di quanto sia attuale e necessario parlare del processo di privatizzazione di cui la scuola italiana è vittima.

Le nostre famiglie sono costrette a sacrifici ingiustificabili e per la maggior parte degli studenti studiare diventa sempre più un lusso piuttosto che uno strumento di emancipazione individuale e collettiva. La mia generazione, infatti, vive il dramma di poter studiare e formarsi solo grazie alle risorse familiari e deve fare i conti con un welfare dal forte impianto familistico, che al più presto dovrebbe essere riformato in senso universalistico, garantendo a tutte e a tutti la possibilità di autodeterminarsi indipendentemente dal contesto di provenienza, grazie anche all’introduzione di un reddito minimo garantito.

Come soggetti in formazione paghiamo quotidianamente le politiche di mercificazione e privatizzazione dei saperi e come frammento di una generazione precaria scontiamo i costi di una crisi che non abbiamo prodotto. Non esiste, dunque, dicotomia o contraddizione alcuna tra la soggettività in formazione e la generazione precaria. Veniamo espulsi dai luoghi ormai privatizzati della formazione, non abbiamo forme di tutela o prospettive di futuro, siamo subordinati alla mercificazione del sapere e a una classe dirigente sorda rispetto alle nostre istanze. La precarietà non è più un paradigma meramente contrattuale o salariale, ma un fenomeno e un processo esistenziale. Oggi in Italia il livello di disoccupazione giovanile supera il 40% e con umorismo nero affermiamo di detenere noi la maggioranza politica nel nostro Paese. A peggiorare il tutto c’è la preoccupazione che l’aumento della disoccupazione abbia ormai assunto un carattere strutturale. Al contempo, il livello di disuguaglianza ha raggiunto picchi allarmanti in seguito alla “cura” dell’austerity e delle misure anti-crisi, e la mobilità sociale raggiunge i livelli più bassi d’Europa. Diversi studi hanno dimostrato che esiste un doppio legame tra istruzione e disuguaglianze: se da una parte le origini familiari tendono ad aprire o a escludere le porte di accesso all’istruzione, dall’altra esiste una precisa relazione tra l’investimento in istruzione e le politiche educative e il livello di disuguaglianza generato nella società.

L’Aquila, città in cui la precarietà si presenta sotto il triplice aspetto di condizione, prospettiva e minaccia, è l’esempio perfetto di come i soggetti in formazione, e in particolar modo le studentesse e gli studenti delle scuole superiori, siano la categoria sociale costretta dalle politiche emergenziali a vivere nella marginalità. In questi anni abbiamo provato a portare avanti, spesso a fatica, le nostre rivendicazioni circa la mancanza di servizi o agevolazioni per il diritto allo studio, spazi sociali, aggregazione e cultura. Attraverso le pratiche della cittadinanza attiva e dell’impegno sociale abbiamo interpretato insieme i nostri bisogni e sappiamo di voler essere gli artefici della loro elaborazione, progettazione e concretizzazione.

Nel periodo immediatamente successivo al sisma siamo riusciti a ritagliarci uno spazio vitale all’interno dei centri commerciali in mancanza di alternative e ogni giorno dimostriamo di nutrire un solido senso di appartenenza nei confronti di una terra martoriata. Le occupazioni delle nostre scuole, che stereotipi narrano generate per ricorrenza, nascono al contrario dal sentore o dalla necessità pressante di dover colmare il vuoto della politica nella nostra città. Le abbiamo fatte diventare un palcoscenico di approfondimento culturale, politico e partecipativo e abbiamo saputo svolgere un ruolo programmatico e decisionale migliore dei grandi con cui ci confrontiamo. Ci affacciamo ad un ricambio generazionale che comporterà che i nuovi soggetti in formazione non saranno più coloro che oggi sono consapevoli di come era strutturata la loro vita sociale nel centro storico e la nuova sfida sarà riuscire a creare un percorso che sappia tener conto anche delle modificazioni inerenti i bisogni materiali e immateriali delle studentesse e degli studenti che verranno.

Una regolamentazione delle esigenze materiali dei soggetti in formazione dovrebbe essere garantita da una legge sul diritto allo studio, che dopo la “riforma del Titolo V” non è più di competenza nazionale, bensì regionale. In Abruzzo la legge regionale sul diritto allo studio risale al 1978 e nella sua arretratezza non è in grado di agevolare uno studente nella sua quotidianità, fuori e dentro la scuola. Da tempo ne rivendichiamo una revisione sostanziale, mediante cui si potrebbe introdurre il comodato d’uso dei libri di testo e il trasporto gratuito per tutte le studentesse e tutti gli studenti, nonchè istituire un tavolo di confronto tra associazioni dei commercianti, provincia, ufficio scolastico provinciale, giunta della Consulta provinciale degli studenti, e associazioni studentesche in merito all’adozione di una carta dello studente che sappia incidere realmente sui costi di accesso alla cultura.

Il 22 novembre 2013 sul quotidiano locale “Il Centro” è stato pubblicato un articolo dal titolo “Il centrodestra punta sui ragazzi”, in cui veniva resa nota la proposta di cinque consiglieri di inserire la Consulta dei giovani nel Regolamento del Comune dell’Aquila con lo scopo di favorire la partecipazione alla vita politica e alla ricostruzione della città della popolazione di età compresa tra i quattordici e i trent’anni. Sempre secondo l’articolo, cinque componenti della Consulta dei giovani saranno nominati dal Consiglio comunale mediante modalità che non sono state ancora chiarite. Già dal titolo con cui la notizia è stata data è palese l’interesse nell’evidenziare l’investimento del centrodestra sugli studenti aquilani. Pretendiamo che vengano utilizzati linguaggi diversi per esprimere le interazioni tra gli studenti e le istituzioni, in quanto ci rifiutiamo di accettare che un percorso di rivendicazione partito dal basso venga mascherato come un processo verticale. In realtà, infatti, non è il centrodestra che punta sui giovani,ma sono i giovani che da quattro anni pretendono risposte dal Comune dell’Aquila, e quindi anche dalla sua componente di centrodestra. Questo autunno non ci siamo esentati dal creare momenti di confronto con le istituzioni, nonostante la costante e inaccettabile assenza di risposte concrete, anche da parte di chi adesso si sta spendendo per costruire questo percorso di rappresentanza che riteniamo necessiti di alcune precisazioni.Risulta difficile pensare, per come è stato presentato, che tale schema di rappresentanza possa essere realmente inclusivo e democratico, ma soprattutto che sia la risposta complessiva ai bisogni materiali e immateriali dei soggetti in formazione aquilani.

Per riuscire anche solo ad abbozzare una prospettiva di futuro c’è bisogno di uno sforzo colletivo, mediante cui venga sradicata la concezione della politica come di un processo volto a raggirare le persone e adoperarsi affinchè diventi una ricchezza culturale e partecipativa alla portata di tutti,  realmente in grado di incidere sull’esistente. Non c’è più tempo per i piccoli provvedimenti. Abbiamo bisogno di un significativo investimento politico ed economico su quei saperi che pretendono la libertà di avere spazio nella società e la dignità per sentirsi ed essere fondamentali per la ricostruzione della nostra città.

Riflessi politici: dalla “rivolta studentesca” a Porto Alegre

Dalla “rivolta studentesca” a Porto Alegre

(tratto dal libro:”Territorio e democrazia” di Lina Calandra)

 

di Fabio Pelini

democrazia

 

 

 

 

 

 

Nella storia dell’Italia repubblicana, in più fasi, si è manifestata la necessità di dare concreta attuazione al dettato costituzionale che fondava il nuovo Stato sull’idea della partecipazione. Negli anni del boom economico, una nuova generazione chiedeva, a partire dalla propria condizione di studente nell’inedita società di massa, un ruolo da protagonista nelle scelte politiche ed economiche. Si trattava, in realtà, di una tendenza presente a livello internazionale che costruì quel grande movimento di massa comunemente identificato con l’anno 1968, ma che vide la luce nei primi anni Sessanta e si sarebbe concluso nel decennio successivo.

Molte furono le cause nazionali e internazionali che concorsero a quel protagonismo giovanile, ma certamente nel nostro Paese quel movimento – che avrebbe caratterizzato un’epoca e lasciato segni indelebili in quelle successive – ebbe una spinta determinante dalla necessità di colmare una distanza tra una politica ancora figlia di una stagione superata e una generazione, che quasi repentinamente, si trovava a prendere coscienza di sé e del proprio ruolo nella società, a partire dalla trasformazione in istituzione tendenzialmente di massa quale era divenuta l’Università italiana. La rivolta studentesca scosse alle fondamenta la società italiana e, nonostante i contenuti di quella stagione fossero inequivocabilmente volti a una visione di radicale progressismo, nessuno degli attori politici in campo seppe interpretare e dare voce a quella protesta. Almeno così sembrò nell’immediato in realtà, l’idea di una democrazia diretta e quindi partecipata rimase sullo sfondo, e il lascito si concretizzò in un cambiamento dei costumi e degli stili di vita nel senso comune delle persone, più che da metodi rinnovati nella gestione della cosa pubblica o da un senso di riappropriazione delle scelte che scavalcasse i partiti. Partiti, la cui vocazione di massa finì paradossalmente per rafforzarsi, sorretta da una divisione ideologica ancora molto includente e quindi in grado di riassorbire molte di quelle spinte centrifughe.

Il secondo grande momento di rottura fu rappresentato dal movimento del 1977: in quell’occasione, la dimensione internazionale ebbe un ruolo certamente più marginale rispetto al movimento sessantottino, mentre la rottura con il sistema della rappresentanza politica fu senza dubbio più acuto, perché la disillusione rispetto a una divisione ideologica oramai sterilizzata e sclerotizzata dall’equilibrio della Guerra fredda, lasciava poco spazio per una riforma del sistema politico. E, molto probabilmente, aprire spazi di partecipazione sociale nel sistema politico democratico non era neanche tra gli obiettivi della generazione del Settantasette, tutta protesa invece verso una contestazione generalizzata che non risparmiava nessuna forza dell’arco costituzionale, percepita come parte di un unicum, irriformabile e chiuso in se stesso. Sullo sfondo restava tuttavia un rilevante richiamo ideologico alle differenti esperienze internazionali del socialismo, volano ancora per la ricerca di una società di liberi e uguali sostanziata su una democrazia avanzata e diretta che non riconosceva come interlocutori neanche più i partiti affini, ma che finiva poi per riproporne le stesse liturgie e i medesimi malfunzionamenti.

Erano i primordi di una società che si scopriva forse più matura, ma disillusa e fondamentalmente protesa verso un post ideologismo che andava coagulandosi di pari passo con la secolarizzazione delle idee e della società. Quando nel 1989, l’esperienza più forte di socialismo realizzato crollò – seppur negato nei fatti da una società come quella sovietica sclerotizzata e asfittica – in molti videro nella fine di quella esperienza il compimento di un ciclo, “la fine della Storia” come ebbe a sintetizzare lo storico F. Fukuyama (2003).

Le magnifiche sorti e progressive avevano condotto la storia del mondo verso l’unico esito possibile, quello cioè in cui le libertà individuali si sostanziavano essenzialmente nell’iniziativa economica, la cui spinta individualistica finiva per portare benessere per tutti. L’egualitarismo e la spinta verso una società più giusta e democratica erano percepiti ormai come dei ferri vecchi da rottamare, o comunque un intralcio sulla via dello sviluppo della società. Tuttavia, nel suo volume “Il passato di un’illusione”, F. Furet (1997) – certo non ascrivibile nel pantheon dei nostalgici del comunismo – aveva sostenuto convintamente che la fine del comunismo non avrebbe in alcun modo significato l’abbandono della ricerca di una società più giusta, fondata su una democrazia nella sostanza più autentica. Un pensiero forsecontrocorrente nella vulgata del post caduta del muro di Berlino, ma che coglieva nel segno rispetto alla tendenza che di lì a poco si sarebbe manifestata.

È infatti proprio dei primi anni Novanta l’emergere di un diffuso movimento di democratizzazione che prende le sue mosse dal sud del Brasile, dalla città da due milioni di abitanti dello Stato di Rio Grande do Sul, Porto Alegre: quando nel 1989 fu varata la nuova giunta cittadina, l’amministrazione popolare assunse l’impegno di governare la città attraverso un esercizio permanente di trasparenza e di democratizzazione delle decisioni.

L’obiettivo era la costruzione di un nuovo modello di governo che mettesse al centro la ricerca di rinnovati vincoli di solidarietà, sostanziati sulla condivisione delle scelte più importanti, in opposizione all’ideologia neoliberista che esaltava invece un’idea individualista che non pone delle regole e si preoccupa solo di utili e profitti. Questa concezione solidaristica e collettivistica rifletteva la visione programmatica del Partito dei lavoratori e del Fronte popolare e di una pratica che si prefiggeva intrinsecamente il superamento della democrazia rappresentativa a vantaggio della democrazia partecipativa.

Al centro di quel tentativo c’era il bilancio partecipativo, che si rivelò un forte elemento di presa di coscienza dei cittadini e di politicizzazione dei settori popolari, e che determinò un avanzamento nella conquista di nuove relazioni tra il Municipio e la popolazione. Ma in cosa consisteva il bilancio partecipativo? In generale, si sottoponeva alla discussione e alla scelta dei cittadini e delle cittadine l’utilizzo delle risorse economiche della città, permettendo alle persone di stabilire le priorità di spesa, anno per anno. Il bilancio partecipativo appariva, dunque, come una forma concreta di stimolo alla formazione di consigli popolari nei quartieri e nei sobborghi della città, affinché quei cittadini, in forma organizzata, potessero decidere sull’utilizzo del denaro pubblico sotto forma di investimenti e interventi da realizzare per migliorare il livello di vita concreto delle persone. Dopo qualche fisiologica incertezza iniziale, il processo acquisì gradualmente sempre maggiore spessore ed evidenziò una certezza: la garanzia della sua permanenza e del suo rafforzamento come pratica democratica sarebbe consistita nella capacità di ampliare continuamente la presenza attiva dei settori sociali più disparati.

Nei primi anni di attuazione di quel nuovo modello si riscontrò una sfiducia diffusa rispetto all’impegno del governo municipale a rispettare e realizzare le decisioni approvate dalle riunioni popolari; nelle prime assemblee parteciparono poche associazioni e qualche centinaia di persone. Ma già dal secondo anno di governo, quando si cominciarono a vedere le opere che riflettevano le decisioni della comunità, la modalità partecipata si estese rapidamente: si ampliarono il numero delle zone interessate e quello dei partecipanti, e il rispetto reciproco per la pluralità di posizioni all’interno del bilancio partecipativo conferì grande credibilità al progetto.

In quel momento storico, in cui la “fine della Storia” pareva ineluttabile, fronteggiare la visione predominante della “privatizzazione” dello Stato attraverso i benefici fiscali, le esenzioni, i privilegi e la corruzione era un compito prioritario della sinistra brasiliana, congiuntamente alla presentazione di progetti alternativi globali per il Paese. Il miracolo avvenne: da Porto Alegre, si irradiò dappertutto l’idea di superare le vecchie divisioni ideologiche con un’idea della politica rinnovata, che metteva al centro la partecipazione dei cittadini quale unico antidoto alle scelte delle grandi multinazionali, che vedevano in organismi transnazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale (che non erano eletti da nessuno) il proprio braccio “politico”.

Dalla necessità della ricostruzione di uno spazio pubblico e, più in generale, di un altro mondo possibile, si sviluppò e crebbe a livello internazionale il movimento noglobal e, nei vari livelli locali italiani (e non solo), la necessità di ricostruire un legame diretto tra politica e cittadini. Pensare globalmente e agire localmente, si disse con felice sintesi.

‘L’AQUILA SONO ANCHE IO’, CITTADINANZA ONORARIA AI FIGLI DEI MIGRANTI

bambini_stranieri-300x224

 

 

 

 

 

 

 

 

All’interno del cartellone natalizio aquilano, dal 4 al 6 gennaio, prenderà il via il progetto “L’Aquila sono anch’io“, promosso dalle associazioni L’Aquila in Comune, Comitato Territoriale ARCI L’Aquila, Associazione Bibliobus, Associazione Arti e Spettacolo, Koinonia – Ludobus, Centro Servizio Stranieri, Comitato Unicef per L’Aquila, Istituto Comprensivo Gianni Rodari, Coordinamento Ricostruire Insieme, Associazione Animammersa, ActionAid Italia, L’Aquila per la Vita e Libera, in collaborazione con il Comune dell’Aquila – Assessorato alle Politiche Sociali.
Il progetto prevede una serie di iniziative che porteranno, il 6 gennaio, alla cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria ai minori nati in Italia, figlie e figli di migranti residenti nella nostra città.
A marzo scorso, infatti, il Consiglio Comunale, su proposta del Consigliere di Appello per L’Aquila, ha approvato un ordine del giorno per “riconoscere, come importante atto simbolico, la cittadinanza onoraria ai minori nati nel territorio italiano, figli di immigrati regolari, residenti all’Aquila, onde favorire una reale integrazione dei cittadini stranieri, con un atto di grande impegno sociale e premessa di un effettivo riconoscimento della cittadinanza italiana da parte della nostra legislazione nazionale”. [http://www.appelloperlaquila.org/cittadinanza-onoraria-ai-bimbi-degli-immigrati-nati-italia-tanti-perche-di-una-scelta/]
Il programma è un percorso articolato che si propone di favorire la riflessione e la comprensione sempre più profonda di temi e prassi che riguardano l’integrazione culturale e l’accoglienza.
Il primo appuntamento è per sabato 4 gennaio con il regista Andrea Segre che presenterà il suo film “La prima neve” (Gran Sasso Science Institute – ex Isef, ore 18.00); sempre sabato alle 21.00 la Piccola Bottega Baltazar terrà un concerto nell’Auditorium del Conservatorio “Casella”.
Domenica 5 gennaio durante la fiera dell’Epifania verrà allestito uno stand solidale con la vendita di “pezzi” dell’Aquila (a cura di Arti e Spettacolo), il Bibliobus, Koinonia e il Ludobus vivacizzeranno il centro della città con fiabe e giochi di paesi lontani. Dopo la fiera, alle 21.00, l’Auditorium del Parco ospiterà la musica di Young Music@re ensemble.
Tutto questo porterà alle 11.00 della mattina del 6 gennaio (Auditorium del Parco) alla cerimonia che coinvolgerà la città dell’Aquila per festeggiare con le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi nati in Italia e che vivono nella nostra città, il riconoscimento della cittadinanza onoraria che, seppur simbolico, rappresenta comunque il primo passo verso una reale integrazione oltre che un doveroso contributo al dibattito nazionale sullo ius soli. Un importante momento di riflessione condiviso già da molte città, segno di una sensibilità che nasce dal basso e che coinvolge anzitutto le amministrazioni locali, prime interlocutrici delle istanze dei territori.
L’impegno dell’amministrazione, delle associazioni di volontariato e dell’intera comunità, adesso, è quello di mettere in atto politiche di accoglienza intelligenti e mirate, che sappiano cogliere negli arrivi di uomini e donne migranti un’opportunità e una ricchezza per i nostri territori, coinvolgendo tutta la città in percorsi di accoglienza e conoscenza reciproca.

Mosler per L’Aquila e il silenzio della città

memmt006

 

 

 

 

 

 

Di Roberto Santilli giornalista di Abruzzoweb

L’economista Warren Mosler attende una risposta dalle istituzioni politiche aquilane. È disponibile a presentarsi a gennaio a Bruxelles con una delegazione politica allargata per dire all’Unione Europea: “I fondi per L’Aquila terremotata si trovano in questo modo, non c’è nessun pericolo per le vostre idee e per i vostri bilanci. Se non vi sta bene, si va avanti lo stesso senza la vostra approvazione, volevamo soltanto avvisarvi”.

Fino a questo momento, però, nonostante Mosler rappresenti nel mondo il più alto livello qualitativo in fatto di macroeconomia e ingegneria finanziaria, nessuno si è fatto avanti concretamente per portare una battaglia di tale importanza nelle stanze che contano, una battaglia che si combatte non con dicerie economiche, ma con armi sofisticatissime frutto della straordinaria padronanza della materia da parte di Mosler.

Non andare a Bruxelles sarebbe un fallimento, il mancato utilizzo del cervello mosleriano sarebbe un fallimento, come se L’Aquila Calcio dicesse di no a Messi, gratis, per una finale play off. Nel caso andasse così, sarà giusto incoraggiare i più giovani ad andare via ancora prima del tempo e i più grandi a fare la stessa cosa prima che sia tardi dal punto di vista anagrafico.

È così che funziona la giustizia che conta. Una città che vuole crepare da stupida provinciale, ha tutto il diritto di farlo.

Buon Natale L’Aquila

natale l'aquila

 

 

 

 

 

 

 

Di Roberto Santilli giornalista Abruzzoweb

A Natale dobbiamo dirci la verità. Vivere all’Aquila è una sciagura. C’è chi si aggrappa ai ricordi e riesce a far finta di niente chiudendosi in un locale con gli amici di sempre, altri non ne vogliono sapere di uscire, di migliorare la vita sociale. Intanto questa città viene ricostruita senza criterio e pure a singhiozzo, con un gigantesco punto interrogativo sul futuro che presto sarà una croce.

E noi non possiamo farci niente, al massimo riusciamo a mantenere vivo il sentimento per ciò che è stato e che non tornerà più. Incastrati in un presente senza direzione, incastrati nel passato di bellezza e noia che oggi vorremmo come il pane, perché significherebbe tranquillità. Siamo incastrati qui. E qualche schifoso nazista che siede a Bruxelles si permette pure di vietare la ricostruzione, tanto i bastardi al governo qui in “patria” obbediscono e non fiatano.

Per riprenderci L’Aquila, poche storie: bisogna gettare in mare tutti quelli che hanno deciso di mangiarsela o di farla morire così, con qualche palazzo rimesso a nuovo e nessun giovane a valorizzare L’Aquila che verrà. La galera non serve a niente, i mafiosi locali, nazionali e sovranazionali, fanno saltare in aria chi gli rovina il business, oppure distruggono la società stoppando gli investimenti che la salverebbero. L’unico modo che abbiamo di difenderci è scovarli e gettarli in pasto agli squali. Perché quella è la fine che meritano.

L’Aquila la musica Concerto e una mostra per onorare le vittime vajont 1963

lon

 

 

 

 

 

 

 

di Michele Giacomel de il corriere delle alpi

Un concerto a L’Aquila in memoria delle vittime del disastro, a 50 anni dalla tragedia. Il rapporto tra la città dell’Aquila e il Comune di Longarone ha una storia particolare, legata a eventi tragici. A L’Aquila si svolse infatti il processo Vajont; i faldoni delle carte processuali rimasero lì fino al terremoto del 2009, e proprio il sisma divenne il motivo per rinsaldare il rapporto, culminato con un patto di amicizia tra i due Comuni siglato nel 45° anniversario del disastro.

In questi giorni si sta vivendo una nuova pagina di questo legame: l’Unla, Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo, delegazione regionale per l’Abruzzo, e l’ensemble strumentale “Serafino Aquilano” hanno organizzato un “Giardino artistico in memoria delle vittime del Vajont”. In occasione del 50° anniversario della tragedia, a L’Aquila è stata allestita la mostra fotografica della Pro Loco longaronese “Vajont, per non dimenticare…”, che rimarrà aperta fino al 28 dicembre, giorno in cui si terrà il concerto in memoria delle vittime del Vajont.

La manifestazione è stata presentata ieri dal consigliere comunale aquilano Maurizio Capri, da Antonio Lattanzi per l’Unla e da Sabatino Servilio dell’ensemble. Da Longarone è scesa Sonia Bortoluzzi, della Pro loco: «Avevamo portato qui la nostra mostra per la prima volta nell’inverno tra il 2008 e il 2009, pochi mesi prima del sisma, per suggellare il patto di amicizia tra le nostre due comunità», commenta Bortoluzzi. «Tornare qui dopo 5 anni, e vedere come è cambiata questa città è stata una forte emozione».

L’AQUILA CALCIO: LA CITTA’ HA BISOGNO DI UN SOGNO

Chi avrebbe immaginato, solo otto mesi fa, che nel giro di una ventina di partite avremmo ottenuto una storica promozione sul campo del Fattori e che, dopo quasi mezzo campionato di Lega Pro 1, saremmo stati soli in testa alla classifica e con la B nel mirino. Il 9 Aprile 2013, giorno in cui Giovanni Pagliari assumeva l’incarico di guidare i rossoblù, in pochi credevano possibile che con quella squadra completamente svuotata di energie fisiche e psicologiche e con una piazza che si preparava a vivere l’ennesimo finale di stagione amaro questo allenatore schietto, umile e determinato sarebbe riuscito a creare l’alchimia vincente con tutte le componenti dell’ambiente calcistico e della città. A ripensarci l’impresa sa veramente di miracolo sportivo. Mister Pagliari subentrava al pur bravo Maurizio Ianni che guidava una squadra ormai in caduta libera in classifica e che forse, già due anni prima nel drammatico finale di Prato, aveva esaurito la sua parabola in rossoblù. L’allora neo-tecnico presentò la sua eloquenza tra lo scetticismo generale dopo la prima vittoria sul campo campano dell’Aversa Normanna, ultima in classifica e già retrocessa, dicendo: “Abbiamo scalato L’Everest” per sottolineare quanto fosse bloccata la squadra a livello mentale e quanto difficile sarebbe stato il suo lavoro. Pochi osavano sperare che dopo quella prima impresa per il popolo rossoblù si potesse aprire il ciclo di gioie e soddisfazioni culminato nella promozione in C1 e nel grande avvio di quest’anno. L’allenatore di Tolentino insomma si è dimostrato da subito l’uomo giusto al posto giusto. In questi pochi mesi di lavoro con il suo modo di vivere e comunicare ha saputo trasmettere valori anche extra-calcistici alla piazza, infondendo nei suoi interlocutori, calciatori, tifosi, società e ambiente una fiducia nei propri mezzi e nel futuro di cui, in questa città in crisi e ancora ferita nel corpo e nell’anima, c’è terribilmente bisogno. Nell’Aquila di oggi, nervosa e arrabbiata, la serenità che il Mister sa dare alla squadra e a chiunque si avvicini alle vicende della Valorosa contrasta con i toni, spesso aspri e violenti, ai quali siamo abituati da anni di divisioni e interessi contrastanti. In sostanza in pochi mesi Pagliari è riuscito in un capolavoro non solo professionale. Risultato che però è maturato sui campi di calcio e, bisogna dirlo, non sarebbe mai arrivato senza l’aiuto dei suoi ragazzi a partire da Testa che con le sue parate vale almeno 10 punti a stagione, passando per le prestazioni di Capitan Pomante, di Carcione e di Saveriano Infantino che con la sua indimenticabile linguaccia al Teramo nella finale play off resterà nella storia del club. In questa stagione i gol di De Sousa, dell’aquilanissimo Lorenzo “il Magnifico” Del Pinto, l’infaticabile corsa unita alla classe di Ciccio Corapi insieme ai valori di un grande gruppo proseguono nell’impresa di fare più grande il calcio nel capoluogo d’Abruzzo . Poi qualche parola va spesa per la società, per Elio Gizzi che in anni difficili da solo ha tirato avanti la barca garantendo il calcio professionistico, per Corrado Chiodi che ha portato solidità, entusiasmo e organizzazione, per Ercole Di Nicola che al netto di contestazioni subite, più o meno condivisibili, ha sempre costruito squadre in grado di lottare per il vertice. Uno staff di soci capitanato dal vice presidente Massimo Mancini e collaboratori di grande livello chiudono il cerchio di una compagine sociale che così nell’Aquila Calcio 1927 forse non c’era mai stata. Infine i tifosi, noi, stupendi, presenti su tutti i campi e non da ora. Il gruppo storico dei Red Blue Eagles, in 35 anni di attività, ha seguito la Valorosa ovunque: in Sicilia, in Sardegna, dai campi polverosi dell’eccellenza agli stadi più prestigiosi della serie C come la Favorita di Palermo, il Partenio di Avellino, il Cibali di Catania e tanti altri. Sempre al seguito della maglia (a parte la parentesi di due anni di contestazione alla tessera del tifoso). Dai 5000 di Avellino all’unico in trasferta a Gela lo striscione Rbe1978 ha sempre accompagnato le sorti di questi colori nelle vittorie e nelle sconfitte. Lodevoli inoltre le tante iniziative benefiche che la curva aquilana porta avanti senza farsi con esse pubblicità, ma che rappresentano il modo sincero e appassionato degli Ultras rossoblù di vivere il calcio e la società moderna. Oggi questa nostra città piena di problemi, che vanno addirittura oltre una già di per sè durissima crisi economica, si scopre protagonista in un campionato di calcio importante grazie a un gruppo di ragazzi giovani, molti dei quali di grande prospettiva come i baby terribili scuola Roma Frediani e Ciciretti, guidati da un uomo sereno, competente e  soprattutto capace di unire la nostra collettività lacerata, divisa e litigiosa nell’inseguimento di quello che per ora è solo un sogno sportivo.
Restiamo con i piedi per terra ma godiamocelo questo sogno, ne abbiamo bisogno!

Goffredo Juchich

SUI RIMBORSI IRPEF AI LAVORATORI DIPENDENTI TERREMOTATI

Ecco un esempio di come la macchina burocratico – amministrativa è diventata  un pachiderma che si auto riproduce e autoalimenta a tal punto che ormai temiamo non riuscirà più a dimagrire anche a causa di una classe dirigente  troppo spesso inadeguata se non addirittura inetta, come pure di un mondo impiegatizio – certamente avvilito, mortificato e vilipeso – ma anche pesantemente appiattito ad un quieto, stanco e apatico lavorare e che non è mai riuscito a condizionare ne’ a  modificare la perversa macchina di cui è parte.
Questa breve premessa solo per raccontare la degenerazione e la vessazione che la burocrazia, attraverso i suoi dirigenti e impiegati, è capace di produrre –  forse con l’obbiettivo di scoraggiare? – in occasione di un banale rimborso IRPEF relativo al mese di aprile e maggio 2009 limitatamente ai lavoratori dipendenti residenti nel cratere terremotato.
Lunghi tempi di attesa all’Ufficio delle Entrate per presentare il previsto modulo –  forse il pachiderma burocratico ritiene che qualche lavoratore potrebbe non volere qualche decina di euro in più?  Eppure paradossalmente occorre fare richiesta   anche per l’ovvio.
Dopo le tante pretese riforme della Pubblica Amministrazione e dopo le tante pompose promesse di semplificazione e trasparenza,  sarebbe stato ragionevolmente ovvio e banale che quei lavoratori dipendenti  avessero ottenuto automaticamente il beneficio direttamente in busta paga piuttosto che produrre ripetutamente una documentazione complicata da ritrovare.
Quanti dipendenti, nello sconquasso del post-terremoto, hanno ritrovato e conservato  i cedolini del 2009? Da precisare: nel 2009 non c’erano ancora i cedolini on-line.
Passivamente tutte le lavoratrici e lavoratori dipendenti, con supina rassegnazione, continuano a  piegarsi ad ogni richiesta della Pubblica Amministrazione  di cui spesso fanno parte.
Sarebbe stato sufficiente che l’Ufficio delle Entrate si fosse messo in contatto con l’Ufficio del Tesoro per conoscere tutti i dati,  cedolini e CUD, necessari per la contabilizzazione del rimborso!
Nemmeno il sindacato, ed in particolare la CGIL di cui siamo iscritti, è stato capace d’intervenire in modo tale da  semplificare le procedure di una normale restituzione di tasse non dovute. E questo è tanto più grave perché, mentre da un lato ha perso ogni potere contrattuale dall’altro, in nome di una ipotetica crescita, grida per ottenere la riduzione delle tasse sul  lavoro piuttosto che pretendere gli aumenti salariali dei lavoratori.
Inoltre vale la pena rilevare come la vita degli abitanti del cratere sia diventata difficile, irrazionale, dissociata e schizofrenica per cui una Pubblica Amministrazione razionale ed efficiente sarebbe un gran sollievo per ogni cittadino di questo territorio.
L’Aquila, 20.11.2013
                                                          Alfonso De Amicis e Tina Massimini
                                                             (iscritti della CGIL – FP di L’Aquila)