Riflessi politici: dalla “rivolta studentesca” a Porto Alegre

Dalla “rivolta studentesca” a Porto Alegre

(tratto dal libro:”Territorio e democrazia” di Lina Calandra)

 

di Fabio Pelini

democrazia

 

 

 

 

 

 

Nella storia dell’Italia repubblicana, in più fasi, si è manifestata la necessità di dare concreta attuazione al dettato costituzionale che fondava il nuovo Stato sull’idea della partecipazione. Negli anni del boom economico, una nuova generazione chiedeva, a partire dalla propria condizione di studente nell’inedita società di massa, un ruolo da protagonista nelle scelte politiche ed economiche. Si trattava, in realtà, di una tendenza presente a livello internazionale che costruì quel grande movimento di massa comunemente identificato con l’anno 1968, ma che vide la luce nei primi anni Sessanta e si sarebbe concluso nel decennio successivo.

Molte furono le cause nazionali e internazionali che concorsero a quel protagonismo giovanile, ma certamente nel nostro Paese quel movimento – che avrebbe caratterizzato un’epoca e lasciato segni indelebili in quelle successive – ebbe una spinta determinante dalla necessità di colmare una distanza tra una politica ancora figlia di una stagione superata e una generazione, che quasi repentinamente, si trovava a prendere coscienza di sé e del proprio ruolo nella società, a partire dalla trasformazione in istituzione tendenzialmente di massa quale era divenuta l’Università italiana. La rivolta studentesca scosse alle fondamenta la società italiana e, nonostante i contenuti di quella stagione fossero inequivocabilmente volti a una visione di radicale progressismo, nessuno degli attori politici in campo seppe interpretare e dare voce a quella protesta. Almeno così sembrò nell’immediato in realtà, l’idea di una democrazia diretta e quindi partecipata rimase sullo sfondo, e il lascito si concretizzò in un cambiamento dei costumi e degli stili di vita nel senso comune delle persone, più che da metodi rinnovati nella gestione della cosa pubblica o da un senso di riappropriazione delle scelte che scavalcasse i partiti. Partiti, la cui vocazione di massa finì paradossalmente per rafforzarsi, sorretta da una divisione ideologica ancora molto includente e quindi in grado di riassorbire molte di quelle spinte centrifughe.

Il secondo grande momento di rottura fu rappresentato dal movimento del 1977: in quell’occasione, la dimensione internazionale ebbe un ruolo certamente più marginale rispetto al movimento sessantottino, mentre la rottura con il sistema della rappresentanza politica fu senza dubbio più acuto, perché la disillusione rispetto a una divisione ideologica oramai sterilizzata e sclerotizzata dall’equilibrio della Guerra fredda, lasciava poco spazio per una riforma del sistema politico. E, molto probabilmente, aprire spazi di partecipazione sociale nel sistema politico democratico non era neanche tra gli obiettivi della generazione del Settantasette, tutta protesa invece verso una contestazione generalizzata che non risparmiava nessuna forza dell’arco costituzionale, percepita come parte di un unicum, irriformabile e chiuso in se stesso. Sullo sfondo restava tuttavia un rilevante richiamo ideologico alle differenti esperienze internazionali del socialismo, volano ancora per la ricerca di una società di liberi e uguali sostanziata su una democrazia avanzata e diretta che non riconosceva come interlocutori neanche più i partiti affini, ma che finiva poi per riproporne le stesse liturgie e i medesimi malfunzionamenti.

Erano i primordi di una società che si scopriva forse più matura, ma disillusa e fondamentalmente protesa verso un post ideologismo che andava coagulandosi di pari passo con la secolarizzazione delle idee e della società. Quando nel 1989, l’esperienza più forte di socialismo realizzato crollò – seppur negato nei fatti da una società come quella sovietica sclerotizzata e asfittica – in molti videro nella fine di quella esperienza il compimento di un ciclo, “la fine della Storia” come ebbe a sintetizzare lo storico F. Fukuyama (2003).

Le magnifiche sorti e progressive avevano condotto la storia del mondo verso l’unico esito possibile, quello cioè in cui le libertà individuali si sostanziavano essenzialmente nell’iniziativa economica, la cui spinta individualistica finiva per portare benessere per tutti. L’egualitarismo e la spinta verso una società più giusta e democratica erano percepiti ormai come dei ferri vecchi da rottamare, o comunque un intralcio sulla via dello sviluppo della società. Tuttavia, nel suo volume “Il passato di un’illusione”, F. Furet (1997) – certo non ascrivibile nel pantheon dei nostalgici del comunismo – aveva sostenuto convintamente che la fine del comunismo non avrebbe in alcun modo significato l’abbandono della ricerca di una società più giusta, fondata su una democrazia nella sostanza più autentica. Un pensiero forsecontrocorrente nella vulgata del post caduta del muro di Berlino, ma che coglieva nel segno rispetto alla tendenza che di lì a poco si sarebbe manifestata.

È infatti proprio dei primi anni Novanta l’emergere di un diffuso movimento di democratizzazione che prende le sue mosse dal sud del Brasile, dalla città da due milioni di abitanti dello Stato di Rio Grande do Sul, Porto Alegre: quando nel 1989 fu varata la nuova giunta cittadina, l’amministrazione popolare assunse l’impegno di governare la città attraverso un esercizio permanente di trasparenza e di democratizzazione delle decisioni.

L’obiettivo era la costruzione di un nuovo modello di governo che mettesse al centro la ricerca di rinnovati vincoli di solidarietà, sostanziati sulla condivisione delle scelte più importanti, in opposizione all’ideologia neoliberista che esaltava invece un’idea individualista che non pone delle regole e si preoccupa solo di utili e profitti. Questa concezione solidaristica e collettivistica rifletteva la visione programmatica del Partito dei lavoratori e del Fronte popolare e di una pratica che si prefiggeva intrinsecamente il superamento della democrazia rappresentativa a vantaggio della democrazia partecipativa.

Al centro di quel tentativo c’era il bilancio partecipativo, che si rivelò un forte elemento di presa di coscienza dei cittadini e di politicizzazione dei settori popolari, e che determinò un avanzamento nella conquista di nuove relazioni tra il Municipio e la popolazione. Ma in cosa consisteva il bilancio partecipativo? In generale, si sottoponeva alla discussione e alla scelta dei cittadini e delle cittadine l’utilizzo delle risorse economiche della città, permettendo alle persone di stabilire le priorità di spesa, anno per anno. Il bilancio partecipativo appariva, dunque, come una forma concreta di stimolo alla formazione di consigli popolari nei quartieri e nei sobborghi della città, affinché quei cittadini, in forma organizzata, potessero decidere sull’utilizzo del denaro pubblico sotto forma di investimenti e interventi da realizzare per migliorare il livello di vita concreto delle persone. Dopo qualche fisiologica incertezza iniziale, il processo acquisì gradualmente sempre maggiore spessore ed evidenziò una certezza: la garanzia della sua permanenza e del suo rafforzamento come pratica democratica sarebbe consistita nella capacità di ampliare continuamente la presenza attiva dei settori sociali più disparati.

Nei primi anni di attuazione di quel nuovo modello si riscontrò una sfiducia diffusa rispetto all’impegno del governo municipale a rispettare e realizzare le decisioni approvate dalle riunioni popolari; nelle prime assemblee parteciparono poche associazioni e qualche centinaia di persone. Ma già dal secondo anno di governo, quando si cominciarono a vedere le opere che riflettevano le decisioni della comunità, la modalità partecipata si estese rapidamente: si ampliarono il numero delle zone interessate e quello dei partecipanti, e il rispetto reciproco per la pluralità di posizioni all’interno del bilancio partecipativo conferì grande credibilità al progetto.

In quel momento storico, in cui la “fine della Storia” pareva ineluttabile, fronteggiare la visione predominante della “privatizzazione” dello Stato attraverso i benefici fiscali, le esenzioni, i privilegi e la corruzione era un compito prioritario della sinistra brasiliana, congiuntamente alla presentazione di progetti alternativi globali per il Paese. Il miracolo avvenne: da Porto Alegre, si irradiò dappertutto l’idea di superare le vecchie divisioni ideologiche con un’idea della politica rinnovata, che metteva al centro la partecipazione dei cittadini quale unico antidoto alle scelte delle grandi multinazionali, che vedevano in organismi transnazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale (che non erano eletti da nessuno) il proprio braccio “politico”.

Dalla necessità della ricostruzione di uno spazio pubblico e, più in generale, di un altro mondo possibile, si sviluppò e crebbe a livello internazionale il movimento noglobal e, nei vari livelli locali italiani (e non solo), la necessità di ricostruire un legame diretto tra politica e cittadini. Pensare globalmente e agire localmente, si disse con felice sintesi.