di Ilaria Carosi
Quando ho chiesto loro di chiudere gli occhi, una risatina ha percorso l’aula.
Tuttavia, era la seconda volta che ci incontravamo e mi hanno accordato fiducia. Quasi tutti.
Io ho fatto finta di non notare quei due o tre che hanno deciso di tenerli aperti e ho guidato gli altri attraverso una visualizzazione molto delicata per la loro giovanissima età. Quelli che ho davanti sono studenti del primo anno di un istituto professionale e per la maggior parte, non tutti purtroppo, non sanno cosa si provi a perdere la libertà personale, sensazione che stanno per sperimentare insieme a me.
Man mano che la mia voce risuona nell’aula, le risatine diventano sempre più rare. Alla fine ottengo un silenzio assoluto. Anche quelli con gli occhi aperti, restano muti. Perché capiscono quanto “angoscioso”, “triste” carico di “ansia” e “paura” sia sentirsi in gabbia, proprio come quell’uccellino colorato che sono riusciti a vedere, pur restando ad occhi chiusi. Mi colpisce davvero la paura, l’emozione che più frequentemente mi viene riferita, quando finiamo: in effetti, sono poco più che bambini.
Le emozioni condivise preparano il terreno e predispongono all’ascolto delle testimonianze previste per il laboratorio del giorno: quelle di due rifugiati accolti negli anni all’interno del progetto Sprar (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati), attivo a L’Aquila dal novembre 2011.
Storie molto diverse, perché diversi sono i teatri geografici su cui si sono consumate. Tuttavia, storie sempre più spesso sovrapponibili, accomunate dalla violazione di quei diritti umani che in altre zone del mondo ci si può permettere di dare per scontato: alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale, alla libertà di parola, di opinioni, di credo religioso, di orientamento sessuale.
Diritti universali che, sulla carta, dovrebbero essere garantiti “senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (Dichiarazione dei Diritti Umani, 1948).
Riflettiamo in gruppo sulla differenza esistente tra migrante e richiedente asilo, su quanto la scelta migratoria del primo, poco o nulla abbia in comune con la richiesta di protezione che anima chi sia costretto ad abbandonare il proprio Paese da un giorno all’altro e contro la propria volontà.
Uomini, donne e bambini che affrontano viaggi duri e complessi che espongono, anche nei paesi di transito, al rischio di tortura, incarcerazioni e maltrattamenti ingiustificati, vessazioni, sfruttamento lavorativo e non solo, mortificazione dell’umana dignità perché costretti in spazi angusti, senza cibo né acqua, senza possibilità di assolvere liberamente le proprie funzioni fisiologiche o anche solo lavarsi.
Viaggi che la paura della morte te la mettono addosso, che si arrivi per mare, in gommone, oppure via terra, nascosti tra le ruote o nel carico di un tir. Quella, lo so bene perché me la raccontano sempre, difficilmente riescono a dimenticarla.
Il bellissimo Progetto di Educazione allo Sviluppo promosso dall’Engim (Ente Nazionale Giuseppini del Murialdo), insieme a 14 organizzazioni no profit di tutta Italia e cofinanziato dalla Cooperazione Italiana – Ministero Affari Esteri, ha coinvolto gli studenti di 18 regioni italiane in due laboratori tematici che spaziano dalla complessità delle motivazioni che determinano una migrazione alla cooperazione allo sviluppo.
In particolare, nella nostra regione, lo stiamo facendo grazie ad Abruzzo Centro Internazionale Crocevia, che ha deciso di implementarlo in 4 scuole medie e superiori (Istituto Statale d’Arte “F.A. Grue” di Castelli; I.P.C. “O. Colecchi” dell’Aquila; I.P.S.I.A.S.A.R. “L. Da Vinci” dell’Aquila; Istituto di Istruzione Superiore “G.B. Vico” di Sulmona), per un totale di circa 240 studenti raggiunti.
La visione di un cortometraggio dà l’opportunità di ragionare sulla forza dei pregiudizi e sui possibili antidoti ad essi, su quanto fallace possa essere giudicare una situazione senza conoscerla nel dettaglio, su quanto spesso le pesanti lenti che abbiamo sugli occhi ci impediscano di rivolgere all’altro quella curiosità che sola permette di uscire arricchiti dall’incontro con il diverso o con chi porti in sé l’altrove, pur non essendo un migrante in senso stretto (si pensi alle seconde generazioni, ai figli delle adozioni internazionali o di coppie miste, per esempio).
A volte, ci si ferma al primo sguardo e tanto basta. È quello che accade usualmente anche in classe, dove al compagno straniero nessuno chiede conto del paese di origine, né della sua storia.
Una storia che, in alcuni casi, ha bisogno di essere raccontata, per acquistare dignità agli occhi dell’altro, perché raccontare aiuta a tenere insieme i propri pezzi e magari a scaricare una parte di quel dolore psichico che tanto affatica chi se lo tiene dentro. Succede, a sorpresa, anche questo.
Il ragazzo dal bellissimo viso, i cui occhi accennano appena all’oriente che gli ha dato i natali e la cui pelle è ambrata e liscia come solo in quel posto del mondo sa essere, mi chiede di poter leggere la sua, di storia, trascritta nel suo italiano migliore. Viene accanto a me, i suoi compagni, ora sì, si zittiscono all’istante.
Non è facile ascoltare le sue parole e quel racconto che inizia già spezzato, non da casa, dal suo paese di origine, né dalla sua famiglia ma dallo stato limitrofo che, probabilmente già solo, lo ha accolto come profugo. La storia la fa iniziare là, il resto è sepolto nell’indicibile, mi chiedo se riesca almeno ad essere pensato o se abbia smesso completamente di esistere. Quando la lettura termina, i suoi compagni gli fanno un applauso che sa di abbraccio. Io lo ringrazio per il dono che ha deciso di farci. Sinceramente commossa, per la fiducia.
E so che è anche e soprattutto merito suo se i suoi compagni definiscono il laboratorio “fantastico”, aggettivo che si ripete nei questionari che raccolgo alla fine dell’incontro. Dicono che vorrebbero ripetere l’esperienza, che hanno voglia di ascoltare altre storie, in particolare quelle di chi è costretto a partire perché altra scelta non ha.
Hanno ragione, andrebbe dato spazio soprattutto alle storie. Sono quelle dei nomi e dei cognomi, quelle che conferiscono la dignità di persone, consentendo di emergere dal mucchio di elementi di una categoria, i migranti, i clandestini, i profughi, i disperati del mare.
Sono giorni molto duri, quelli presenti. In troppi resteranno ad occhi chiusi, con il loro sogno di libertà affogato in gola e sepolto in fondo al mare. Storie che nessuno potrà ascoltare più.
A volte, anche chi fa il nostro lavoro, ha la sensazione di provare a svuotare il mare con un secchiello: il mare dei pregiudizi, del razzismo, delle ingiustizie, dell’ipocrisia di una politica internazionale che finge di non vedere.
Dubbi ed interrogativi tanti. Frustrazione e demotivazione, a volte.
Convinzione assoluta che accoglienza ed integrazione passino attraverso l’ascolto reciproco. Certezza di aver centrato, con questo progetto, un piccolo ma significativo risultato.
Ai nostri ragazzi abbiamo chiesto anche di scrivere una storia, prendendo spunto dagli argomenti trattati. Quelle raccolte parteciperanno ad un concorso, la vincitrice diventerà un cortometraggio.
La sensazione è che la storia più bella, senza saperlo e parlando un immediato linguaggio comune, siano riusciti a scriverla già. Insieme.