Intervista con Terenzio De Benedictis sul Rugby e dintorni

terenzio

a cura di G.J.


Terenzio De Benedictis è nato all’Aquila il 29 Giugno del 1960 ed è certamente tra i migliori tecnici italiani in circolazione. Vanta un curriculum di altissimo livello in cui figurano la guida della nazionale italiana di rugby under 16 dal 1994 al 1998, la panchina della Polisportiva L’Aquila Rugby 1936 nella stagione 1998/99, la vittoria dello scudetto Under 20 con la giovanile neroverde nella stagione 1996/97 e il tricolore Under 15 alla guida dei giovanissimi cussini nel campionato 1986/87, importanti inoltre le esperienze sulle panchine di Rieti, Teramo,Cesena, Stompers rfc Malta, Sulmona e Tornimparte.

com’è cambiato il rugby italiano negli ultimi trent’anni?

Il cambiamento principale è stato l’ingresso nel 6 nazioni nel 2000, iniziato con tappe di avvicinamento dal 1995 con un torneo parallelo. A livello internazionale la prima considerazione importante avvenne con la partecipazione ad invito nella prima Rugby World Cup del 1987 ovvero i primi mondiali di rugby in assoluto che furono giocati in Nuova Zelanda . Personalmente fui accreditato dalla IRB e mi rimane la soddisfazione di essere stato uno dei pochi italiani a seguirla. Furono 25 giorni memorabili. Un tripudio di amicizie, di conoscenze, di confronti sereni. Quel momento sancì la fine del dilettantismo mascherato e permise di avviare il processo verso la fase professionistica. In Italia prima dell’avvento del 6 nazioni questo era, di fatto, uno sport giocato da pochi ma aperto a tutti. Aveva intrinsecamente una componente “rebelde”, i pochi praticanti erano sportivi leali e nello stesso tempo diversi. Diversi perchè in rapporto agli altri sport il rugby era fatto di regole non scritte e di forme associative di vita partecipata non riscontrabili in altre situazioni. C’era molto rispetto e considerazione per ogni componente: giocatori, arbitri, tecnici e dirigenti. Era facile stabilire momenti di scambi culturali, sportivi con grosse ricadute in ambito sociale. Oggi con le risorse disponibili, derivanti dal grande sviluppo in termini mediatici, si sono create, inevitabilmente, situazioni di conflitto d’interesse, spaccature e divisioni interne al movimento. C’è stato un aumento considerevole del numero di partecipanti e questo ha fatto sì che le accresciute problematiche generino situazioni di malessere. Alcune caratteristiche, sia culturali che sociali, di questo sport talvolta vengono bypassate o ritenute obsolete, in considerazione del fatto che oggi “il più” è mosso dal solo interesse economico. E’ una realtà in cui molti addetti ai lavori hanno preso atto e purtroppo tendono a disaffezionarsi a questa disciplina.

2) quanto e dove deve migliorare la nazionale italiana per vincere il primo 6 nazioni?

E’ difficile azzardare previsioni. Personalmente ritengo che se dovesse accadere sarebbe più per demerito altrui che per qualità raggiunte dal nostro movimento. Nelle altre nazioni del torneo la disciplina del rugby si pratica a livello scolastico ed è diffusa in termini culturali cento volte in più in rapporto al nostro paese. L’organizzazione di alto livello sportivo italiano ha permesso di ridurre notevolmente il gap mediante la naturalizzazione di giocatori stranieri, l’equiparazione, norme ad hoc per gli oriundi e via così di seguito. C’è un progetto federale delle Accademie che come fine ha la formazione di atleti performanti ma è ancora troppo presto per verificare la qualità della produzione. Nel frattempo non è che gli altri stanno a guardare ed ad aspettare che noi diventiamo forti per competere con loro. E’ giusto precisare che se una Federazione investe tutto sull’alto livello, lasciando le briciole al movimento, rischia che la gestione della coperta corta diventi un’arma a doppio taglio perchè se la base comincia a depauperarsi successivamente con quali giocatori si andranno a formare le Accademie?

3) la cultura del rugby può rappresentare un valore di crescita per un bambino/a che si avvicina a questo sport?

Sicuramente a patto che si definisca a monte cosa ci s’intende per cultura del gioco del rugby. Passa ultimamente un concetto molto stereotipato talvolta distante e poco consono alla dimensione della proposta educativa e pedagogica, in termini filosofici della quasi bisecolare disciplina del rugby. Ritengo che i decantati valori siano ultimamente molto snaturati. Il percorso formativo di un bambino non può essere fine a se stesso, occorre comprendere le varie fasi dell’infanzia, della pubertà, dell’adolescenza. La proposta qualitativamente alta presuppone una serie di componenti umane, in termini relazionali, che non possono limitarsi alla sola pratica sportiva. Quest’ aspetto ha fatto di me e di molti altri allenatori di rugby un prototipo di figura che ha avuto la propria miglior performance soprattutto negli aspetti formativi intesi come crescita sociale e culturale prima ancora del mero risultato sportivo.

4) Cosa ti ha dato il rugby in termini di approccio psicologico agli altri e cosa credi di essere riuscito a tramettere tu ai tuoi atleti?

Il mio approccio con il rugby da allenatore è stato per certi aspetti “rivoluzionario”. Grazie alla linea filosofica del “jeu total, jeu de mouvement” portata in Italia da Pierre Villepreux nel 1977. Ho acquisito un modello che mi ha ispirato l’iniziative che ho intrapreso in questi trentacinque anni, oserei dire, di partecipata militanza. Ho cercato di trasmettere un’ idea affascinante fatta di sfide impossibili non solo sportive. Negli anni 50 e 60, il rugby in Italia e a L’Aquila maggiormente, era uno sport di ricchi aperto all’elitè dei buoni salotti culturali. Negli anni 70 molti ragazzi dei ceti meno abbienti si avvicinarono a questo sport e diversi divennero atleti di grande valore, mancava però lo sbocco per tutti gli altri. All’epoca le juniores ed i ragazzi venivano curati dalla Pol. L’Aquila rugby e noi che giocavamo nel Cus eravamo diversamente protagonisti. Avevo 19 anni quando mi fu data la possibilità di iniziare l’avventura. Raccolsi l’invito ed immediatamente la prima sfida era aggregare i ragazzi su altri temi ovvero dare a tutti una chance. A tutti significa ancor oggi andare a fare proselitismo nelle aree di difficoltà sociale e nei quartieri popolari. In breve tempo il numero dei partecipanti crebbe a dismisura. A dir la verità il primo gruppo di ragazzi apparteneva ad un ceto medio benestante. Fortunatamente non mi ci volle molto per stabilire delle regole di partecipazione in cui erano assenti privilegi, favoritismi e compiacenze. In meno di 4 anni divenimmo la prima forza nel centro sud. Decine di tornei vinti in tutta Italia, due coppe Italia U.15 città di Rovigo nel 1984 e 1985, uno scudetto Under 15 nel 1987. Grandi risultati sportivi ma una partecipazione valorizzata di tanti ragazzi che provenivano da tutti gli strati sociali. Realizzammo diverse iniziative con molte tourneè e scambi culturali all’estero. Soprattutto per lunghi 15 anni si è divenuti egualmente protagonisti non solo alla pari ma spesso sopra il livello delle altre squadre cittadine. Cosa ho trasmesso ai miei atleti? Intanto la definizione miei non mi piace ed è impropria. Come in tutte le cose della vita e della società contemporanea non tutti comprendono il valore della proposta. I modelli culturali propinati negli ultimi vent’anni sono in netta contrapposizione a quanto ho proposto e confido ancora di fare, appena ne avrò possibilità.

5) terzo tempo, rispetto dell’avversario e valori etici sono stereotipi o valori sostanziali di questo sport?

Il terzo tempo di cui tutti parlano è un’altra cosa rispetto al concetto culturale dello stesso. Storicamente il “terzo tempo” rappresentava, per gli anglosassoni e relativi domini dell’emisfero australe, il modo e la maniera per scambiare opinioni, doni, ringraziare il paese ospitato ed organizzare la tournèè successiva. La cosa avveniva per sincerare un’amicizia e la possibilità reale di continuare a praticare uno sport in termini differenti dagli altri. Divenne un protocollo ufficiale nell’organizzazione dei tornei sia del 4, poi con l’ingresso della Francia del 5 nazioni. La cosa più importante era lo scambio d’informazione e l’attivazione di processi comunicativi che mantenessero integro il concetto ed il valore formativo della proposta rugby. Non a caso il rugby divenne materia importante in ambito di College e Università nei paesi del Commonwealt. Oggi il terzo tempo è confuso con una bevuta ed una mangiata comune dove tutto il resto è noia. Stessa cosa sui decantati valori, rimasti inalterati a prescindere, occore un’attenta riflessione. Oggi sia un professionista sia un non professional player o semplicemente un giocatore del “social pub level”, difficilmente, compie gesti violenti o si lascia andare a scorrettezze. Ci sono telecamere e videofonini in tutte le partite. Questo è un buon deterrente per coloro che valicano il limite dell’aggressività che è una componente fondamentale di questo sport ma che non può trascendere in gesti sleali o scorretti. Questo rimane un principio universale che ha connotato, connota e connoterà questo sport in termini differenti sempre ed ovunque. L’altro principio etico che ha contraddistinto questo sport è il concetto del sostegno. Un principio diverso perché si materializza concretamente: senza sostegno perdi palla, possesso e territorio. Tradotto nella vita di tutti i giorni, in cui si riceve tanta solidarietà ma poco aiuto concreto, questo principio assume ancor più valore perché fa la differenza. Oltremodo s’intende un aiuto prima ancora che la situazione diventi compromessa. E’ un grande valore che in termini relazionali, fuori dal campo, non sempre trova la reale applicazione pur nello stesso ambito.

6) L’Aquila Rugby, Gran Sasso Rugby e tante altre società gravitano nel mondo della palla ovale aquilana ma i risultati ai massimi livelli mancano. Perché? questione solo economica o movimento in crisi?

Per i risultati di massimo livello ci vogliono ingenti risorse. Questo non toglie che una gestione non eccellente della cura e valorizzazione delle risorse umane presenti nel territorio abbia fatto sì che bisogna acquistare molto di più di quanto si produce: purtroppo da diversi anni. Il movimento non è in crisi, i numeri dicono il contrario. La contraddizione è che ci sono più squadre seniores (9 in provincia) che Under 12 (quattro con numeri esigui). La crisi prima ancor che tecnica è dirigenziale. Molti quadri dirigenti sono fermi, immobili, impauriti di dover lasciar la poltrona, sono padroncini di orticelli improduttivi legati a logiche di clan dove il bene comune viene dopo l’interesse personale. Stessa cosa in ambito federale regionale dove regna incompetenza, ignoranza e logica del favore. Purtroppo 20 anni di Silvio e affini meno L, si ripercuotono, culturalmente, nei modi e nelle logiche del potere di basso profilo. Ci sono poi i “mammasantissima” che solo il sottoscritto e pochi altri mettono in discussione, a cui tutto è dovuto e, cosa grave, tutto è concesso. Questo compromette la possibilità di favorire l’opportunità d’inserimento di forze nuove con idee diverse. La mancanza di una democrazia interna è un problema di tutto lo sport italiano: la dice lunga ancora l’istituzione CONI , unico organismo a che non trova riscontri normativi a legittimarne l’esistenza a nessun livello al mondo.

7) qual’è la situazione degli impianti sportivi all’Aquila e nel suo territorio?

Incredibile ma vero meglio del pre terremoto, fermo restando che purtroppo la politica favorisce un uso per i soli amici, per pochi eletti e, come al solito, con concessioni e convenzioni favorite da intrecci politici che tutto salvaguardano tranne il bene comune. Devo registrare una sconfitta per tutti coloro che dopo il terremoto pensavano che ci si potesse riappropriare di spazi che le Amministrazioni Comunali avevano dato agli amici degli amici e poter ottimizzare una serie di proposte sportive e sociali alternative. Invece peggio di prima. Lo sport per tutti non esiste, costi elevati d’accesso, limitazioni al nuovo associazionismo, solite regalie a chi gestisce le scartoffie del PRG, poca sensibilità all’ iniziative di carattere sociale. Solo business con compiacenza dell’area nobile della sinistra. C’è chi lo sport solidale lo predica e chi lo realizza. Da un paio di mesi un gruppo di ragazzi stranieri che vivono nelle “case famiglia” è stato coinvolto dal Elio ” maracatù” Tazzi nella Under 16 del Cus L’Aquila: tutti i ragazzi oggi giocano senza costi per loro per questa nuova squadra. Ma eventuali premi, contributi e riconoscimenti vari, a fine anno andranno solo a chi raggiunge il mero risultato sportivo. Non è questo il modello sociale e culturale valido che mi proponevo di trasmettere agli inizi della mia attività. Se poi vado a guardare i giocatori aquilani che negli 15 anni hanno vestito la maglia azzurra, per la gran parte, sono figli di primari e professionisti importanti, mi convinco sempre di più che questo sport sia diventato uno sport per soli ricchi ed il conflitto interiore mi aumenta in termini esponenziali perché non trovo risposta al fatto che decine di ragazzi di ceti meno abbienti non hanno trovato la giusta affermazione.

8) il giocatore più forte che hai allenato?

Roberto D’Antonio in primis.. pur avendo avuto la fortuna di avere nelle squadre giovanili dell’Italia Under 16, che ho allenato dal 1994 al 1998, i giocatori più noti al grande pubblico. Ho fatto un solo nome perché è stato il giocatore che aveva l’estro, la fantasia, il gesto e l’intelligenza di gioco che garantiva a me di poter inventare nuove proposte di gioco, nuove soluzioni in attacco ed in difesa, di battere strategicamente avversari molto più forti di noi. E’ ancora un grande aggregatore di rugby. Competenze innate e creatività totale: un rugby fuori dagli stereotipi e dalle strutturazioni di gioco, prima ancor mentali che tecnico-tattiche. Quel qualcosa in più che se avesse avuto una contaminazione a livello locale e nazionale avrebbe garantito il piacere, lo spettacolo, il gusto di fare del movimento l’espressione più grande in senso universale della poesia di questo sport.

9) ti manca la panchina?

Assolutamente no. E’ il momento di passare il testimone e di dedicarmi ad altre cose. Quando ero all’apice della considerazione nazionale mi ero ripromesso che a 50 anni mi sarei impegnato a formare e trasmettere ad altri quanto più potessi a partire dal mio vissuto. Il terremoto mi ha riportato con i piedi per terra. Ho accettato di collaborare in progetto di rugby a Malta nel 2011 con il club Kavallieri proprio perché sapevo che alcune chance non passano tutti i giorni. Fare il Director of rugby in un team che vedeva oltre ai locali tre inglesi, quattro gallesi, due scozzesi, un brasiliano, tre Kenyani, un italiano ed uno spagnolo è stato un suggello a tanti anni di attività in cui ho avuto la fortuna di partecipare nei vari campionati nazionali di A e B. Personalmente mi ha permesso di uscire dalla penombra visto che dal 2006 mi ero dedicato a promuovere il rugby in quel di Tornimparte. Eppure non era nata male nemmeno quell’impresa, peccato che amministrazioni comunali inconcludenti hanno impedito ed impediscono lo sviluppo delle iniziative sportive. Il campo e la struttura annessa sono inutilizzati e chiusi da cinque anni. E pensare che al secondo anno avevo portato un paesello a giocare contro 8 capuologhi di Provincia di cui due di regione (Ascoli, Fermo, Ancona, Perugia, Pescara, Teramo, Chieti, Macerata) e squadre di località di grande risonanza turistica come Gubbio, Recanati, Falconara oltre alle sfide locali con Gran Sasso, Paganica, Avezzano mi mette ancora rabbia. Quando si dice la lungimiranza della politica.