Tratto dal Corrierepeligno.it
«L’Italia ha bisogno d’una maggiore flessibilità del lavoro». «Il lavoro flessibile produce occupazione». «Accrescere il numero dei lavori flessibili rientra negli interessi generali della collettività». Falso. Questa è l’ideologia che i sistemi di informazione di massa e la comunicazione politica radicano da oltre un trentennio nel corpo sociale per legittimare e giustificare il progressivo smantellamento delle tutele del lavoro faticosamente conquistate in decenni di lotte sociali e politiche e l’applicazione di politiche unicamente vantaggiose per le imprese, le rendite e i grandi patrimoni.
Flessibilità significa lavoro intermittente, a chiamata, in nero, collaborazioni dette continuative ma di fatto discontinue.
Flessibilità significa cedere all’acquirente della forza-lavoro piena disponibilità temporale e psicologica in cambio di salari spesso capaci di coprire i soli costi della sopravvivenza.
Flessibilità significa negazione della sicurezza, poter essere spogliato della dignità e dei mezzi di sussistenza da un momento all’altro, occupazioni prive di diritti e di garanzie, licenziamenti senza preavviso o senza indennizzo, contratti rinnovabili a intervalli così frequenti da impedire una relativa stabilità.
Flessibilità significa che tende a finire l’illusione di possedere una professione: «alla ‘libera’ professione si sostituiscono il lungo curriculum del precariato, tendenzialmente coincidente, per molti, con la stessa vita produttiva, e lo sfondamento verso il basso del confine tra vecchia professione e nuovi mestieri salariati: da medico a ‘curandero’ tuttofare, da architetto/ingegnere a disegnatore pagato a cottimo, da matematico a programmatore saltuario, da psicologo ad assistente domiciliare, da giornalista a impiegato passa-veline di agenzia. Svanisce la certezza di poter disporre appieno della propria mente, delle sue ideazioni, del proprio tempo extralavorativo» (P. Bernocchi, Dal sindacato ai Cobas. La ribellione del lavoro dipendente e l’autorganizzazione fra «pubblico» e privato, Erre Emme, Roma 1993, pp. 12-13).
Flessibilità significa che ha sempre meno senso investire tempo e sforzi in formazione oppure in esperienze lavorative frammentarie e prive di direzionalità nella speranza di conquistare una condizione sicura per poter edificare i progetti e le aspirazioni dell’esistenza; il lavoro flessibile può presentare i conti anche a distanza di dieci o vent’anni, quando la giovinezza sarà passata ed i progetti di vita, sempre rinviati, non saranno più realizzabili.
Il costo umano della flessibilità è ben riassumibile nella condizione di precarietà. Il dispositivo della precarietà è una trappola che non garantisce nessun margine di sicurezza per il futuro. La lunga sequenza di contratti lavorativi a tempo determinato non implica necessariamente la stipula di un nuovo contratto (prima della fine o alla fine di quello in corso) né la conquista, alla lunga, di un contratto a tempo indeterminato. Dalla precarietà, per conseguenza scaturisce primariamente l’insicurezza, «insicurezza che, muovendo dalle condizioni di lavoro, diventa insicurezza delle condizioni di vita, poiché il lavoro, e con esso il reddito, è revocabile a discrezione del soggetto – l’impresa, il datore di lavoro – che lo ha concesso. L’etimo di ‘precario’ significa precisamente questo: qualcosa che si può fare solamente in base a un’autorizzazione revocabile, dal momento che è stato ottenuto non già per diritto, bensì tramite una preghiera» (L. Gallino, Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 8).
Nella misura in cui rende incerto l’avvenire, la precarietà pone in essere soggetti che non sono più letteralmente padroni del loro tempo, «impedisce qualsiasi forma di anticipazione razionale e, in particolare, quel minimo di fede e speranza nel futuro che è necessario per ribellarsi, soprattutto collettivamente, contro il presente, anche quello più intollerabile» (P. Bourdieu, Oggi la precarietà è dappertutto, in Id., Controfuochi. Argomenti per resistere all’invasione neoliberista, Reset, Milano 1999, p. 96).
Accettando l’impotenza a controllare le condizioni della propria esistenza gli individui finiscono per arrendersi a quello che ritengono un destino, una necessità ineluttabile. Via via sembra scomparire la stessa dimensione temporale del futuro, che si capovolge perversamente nella continuazione di un sempre-uguale presente. Il domani non viene più percepito come ‘futuro’ ma come prolungamento di questo presente, di un presente in preda ad automatismi ingovernabili ed autoreferenziali. Il sentimento è che la propria vita, il proprio futuro e il proprio destino non dipendono dal modo in cui il soggetto agisce ma da fattori puramente contingenti e da forze variamente etichettate come «liberalizzazioni», «razionalizzazioni», «esternalizzazioni», «privatizzazioni», «ristrutturazioni produttive», «delocalizzazioni», «deregolamentazioni», etc.
Un altro aspetto non meno significativo della «società flessibile» è che la maggior parte dei lavori discontinui non richiede solidi percorsi scolastici, culturali e formativi. I tipi di competenze richiesti per praticare occupazioni flessibili «non comportano un apprendimento sistematico e a lungo termine» (Z. Bauman, L’istruzione nell’età postmoderna, in Id., La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino, Bologna 2002, p. 167). Anzi, per praticare occupazioni flessibili è sempre più richiesta un’istruzione di breve durata, un «sapere ad uso e smaltimento istantaneo» (Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 40), conoscenze adatte all’utilizzo immediato, kit di autoapprendimento facili da usare.
Di qui la progressiva dequalificazione del sistema pubblico di istruzione e la diffusione dell’idea «che la scuola deve essere solo servizio sociale che eroga formazione a domanda, subalterna alle istanze del sistema produttivo, che non ha interesse alla diffusione del sapere critico aperto alla produzione di senso» (M. Vigli, Scuola dello Stato in tempo di globalizzazione. Quale scuola per quale Stato?, in «Koinè», Periodico culturale, a. X, n. 1, gennaio 2003). Per i lavori flessibili, del resto, è richiesta soprattutto l’interiorizzazione incondizionata della disciplina imposta dal principio di competitività globale, la massima disponibilità ad adattarsi alle esigenze dell’ordine produttivo e ad accettare sempre meno sicurezze, tra cui: sicurezza dell’occupazione (protezione contro i licenziamenti abusivi, cioè senza causa, stabilità dell’occupazione, etc.); sicurezza del reddito (mantenimento di un reddito in grado di assicurare al lavoratore e ai suoi familiari la copertura dei costi per una vita dignitosa); sicurezza nei luoghi di lavoro (protezione contro incidenti e malattie professionali, limiti agli orari e agli straordinari, riduzione dello stress sul lavoro, etc.); sicurezza previdenziale (assicurarsi attraverso un lavoro un reddito che permetta di mantenere, dopo l’uscita dal lavoro, un livello di vita dignitoso); sicurezza di rappresentanza (possibilità di espressione collettiva sul mercato del lavoro attraverso le organizzazioni sindacali).
L’erosione di queste forme di sicurezza (a cominciare da quelle relative alla stabilità dell’occupazione, alla garanzia del reddito, al possesso di conoscenze), riduce drasticamente per molti individui la possibilità di costruirsi una carriera, un’identità lavorativa (svolgendo troppi lavori differenti, discontinui e privi di prospettiva è sempre più difficile per il soggetto rispondere alla domanda «chi sono?»), nonché l’accesso alla formazione continua e permanente (le imprese non hanno alcun interesse a investire nella formazione di lavoratori che dopo un breve periodo non saranno più alle loro dipendenze) e la valorizzazione della professionalità (la qualità dei lavori discontinui è in prevalenza bassa). Per i lavoratori flessibili, occupati di volta in volta attraverso un’interminabile sequenza di contratti a termine, aumenta sempre più il rischio di finire al di sotto della soglia di povertà relativa e di essere colpiti da un momento all’altro dalle cosiddette «politiche di ringiovanimento», che considerano determinati lavoratori «troppo anziani» per svolgere date mansioni. Allo stato attuale «l’etichetta di ‘troppo anziano’ viene applicata sempre più spesso a persone che non hanno ancora raggiunto i 40 anni o ne sono appena al di sopra. Dopodiché la probabilità di trovare nuovamente un’occupazione dello stesso livello professionale e retributivo tende a scendere verso lo zero. Rimane leggermente più alta se la persona interessata accetta qualsiasi lavoro, a qualunque paga, a qualsiasi distanza da casa» (L. Gallino, Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, cit., p. 18).
La cosiddetta «società flessibile» – nella misura in cui determina una forte polarizzazione sociale (la ricchezza ed il potere di pochi aumentano, i diritti e le opportunità di molti si riducono drasticamente), nega autonomia e indipendenza a milioni di persone (l’indipendenza della persona è possibile laddove vi è indipendenza economica, riconoscimento sociale, un grado elevato di istruzione, un concreto potere contrattuale nei confronti dell’impresa), erode il tempo necessario per la vita privata, familiare, affettiva, relazionale, comunitaria (il tempo di lavoro colonizza sempre più gli altri tempi della vita), mina la coesione sociale (per i lavoratori flessibili diminuisce il tempo necessario affinché tra persone che lavorano fianco a fianco si stabilisca un legame stabile e duraturo; per questi lavoratori diventano sempre più rare le occasioni per conoscersi, le pratiche collaborative, la partecipazione a forme organizzate di società. Viene meno, in breve, il lavoro come fattore primario di integrazione sociale) – risponde negativamente a tutti i principali parametri oggettivi attraverso cui viene valutata la qualità di una società: reddito medio pro-capite, livello di vita, indice di disuguaglianza, tasso di violenza, indice di sviluppo umano.
di Edoardo Puglielli