Carta di Lampedusa: una svolta nella lotta al razzismo

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di Stefano Galieni

 

Il primo febbraio potrebbe, il condizionale è d’obbligo, segnare una data di passaggio nel mondo dell’antirazzismo e della percezione d’Europa non solo in questo Paese. L’approvazione della Carta di Lampedusa, un patto di riconoscimento comune fra realtà diverse, non riguarda solo i temi dell’immigrazione. In 3 giorni si è discusso, in un’isola battuta dalle intemperie, frontiera sud del continente di come ripartire per ribaltare la frontiera, i linguaggi, le prospettive. Un lavoro complesso nel metodo e nel merito, iniziato mesi fa, dopo l’immonda ecatombe del 3 ottobre, non certo per lavarsi la coscienza ma per uscire da un imbuto di morte e di impotenza in cui tutti sembriamo spesso rinchiusi. Il testo emerso da giorni intensi che hanno visto il coinvolgimento di cittadini di Lampedusa, di migranti e di persone provenienti dall’intero continente, non è la soluzione di tutti i mali o il segnale della costituzione di un ennesima nuova soggettività fra le altre insufficienti. Basta leggerne la versione per ora definitiva (pubblicata su www.meltingpot.org ) per comprendere come si tratti, almeno nella stesura di un salto di qualità, culturale e politico con cui è necessario fare i conti. Un testo a tratti difficile, forse foriero di astrazioni e di utopie, poco compatibile col quadro politico attuale e per questo eversivo e condivisibile. Si è provato in un percorso partecipato, facilitato dall’utilizzo della tecnologia, dal wikiblog alle web conference, a rendere orizzontale una riflessione che vede compartecipi soggettività per tanti anni incompatibili ma legate da un sotterraneo legame di classe. Nella 3 giorni lampedusana si sono incontrati e confrontati soggetti lontani fra loro: gli imprenditori dell’isola e gli attivisti dei movimenti, i rifugiati sparsi per l’Europa e gli attivisti di associazioni laiche e religiose, le madri lampedusane che pagano caro il proprio isolamento e le teste pensanti di un mondo diverso, gli studenti costretti in un unico liceo e i militanti di sindacati, coordinamenti vecchi e nuovi, che localmente, da Bolzano a Catania credono e combattono per un mondo senza frontiere incuranti degli equilibri di una politica distante e incomprensibile. Voci discordanti che trovavano nella richiesta di un pianeta diverso un proprio punto di convergenza in cui si tentava di alterare i linguaggi e i rapporti di potere che questi sottintendono. Utopia sì. Utopia e realtà che si sono incontrate, l’ambizione di spezzare catene prestabilite e la certezza di avere ipotesi concrete di rivedere le relazioni umane a partire da questa sponda estrema del Mediterraneo. Un mare senza navi di guerra e ponte per persone che possano decidere se muoversi in ogni senso, restare, resistere o circolare, un’isola che rifiuta di essere di essere stereotipo di emergenza per migranti e pretende di veder garantita la parità di condizioni di vita per autoctoni e persone appena arrivata. Un’isola in cui oggi nascere è una impresa – il parto e l’assistenza alla gravidanza sono garantiti sono viaggiando continuamente verso la Sicilia – in cui in inverno, il riscaldamento, le verdure, il gasolio, dipendono dalla clemenza del mare, in cui ci si sente spesso estranei all’Europa, cittadini di seconda classe. Ma un’isola che può rideclinarsi come risorsa e luogo di mobilitazione, motore di energia sovversiva e dirompente, capace di imporsi ben oltre i propri 22 km quadrati di superfice. Ora il patto stabilito deve tramutarsi in pratiche concrete sui territori, in azioni capaci di allargare il consenso senza perdere in radicalità e capaci di rimbalzare nel continente come paradigma alternativo e di ridefinizione dei contesti prestabiliti. Le oltre 200 persone faticosamente giunte a Lampedusa in questo appuntamento sono necessarie ma non sufficienti ad un compito così arduo ed occorre che il percorso intrapreso si estenda. Curioso come, nei primi commenti brilli per assenza il ruolo delle tradizionali organizzazioni legate al centro sinistra e dei media mainstream che hanno ignorato o sottovalutato l’appuntamento lampedusano. Paradossalmente soltanto Radio Vaticana si è mostrata interessata ad una visione così palesemente “rivoluzionaria” del rapporto fra la ripartizione dei diritti, una curiosa sintonia fra un potere assoluto come quello del Pontefice e il mondo libertario e poco incline ai compromessi politicanti di un contesto distante dalla realtà come quello attuale. Rifondazione Comunista ha scelto consapevolmente di non avere alcuna ambiguità e di schierarsi, lavorando in questo ambizioso progetto, superando, resistenze e antichi quanto inutili ostacoli pregiudiziali. Dietro la Carta di Lampedusa c’ è un considerarsi, migranti, lampedusani, europei, uomini e donne di ogni latitudine, come persone che faticano nella stessa barca, avendo come avversari le forme vecchie e nuove del dominio capitalista, delle leggi di mercato, dei dettami neoliberisti, dei razzismi che ne costituiscono un comune mortifero collante ideologico. Se la Carta produrrà azioni comuni o diversificate, frutto di specificità e approcci ma accomunati anche da una comune coscienza di classe, potrà costituire un enorme passo in avanti. Bisognerà starci dentro come soggetto propositivo e agente, senza pretese dominanti ma senza neanche celare o sminuire la propria identità e la propria coerenza. Gli spazi ci sono, sta ai tanti compagni e alle tante compagne attenti alle nuove dimensioni che questo Paese e questo mondo va costruendo, malgrado leggi razziste e mura fondate sul sangue, agire e reagire, farsi protagonisti delle mille istanze che si aprono. Oggi una componente consistente di chi è arrivato in Europa non rappresenta un soggetto fragile da accudire con paternalismo ma un formidabile alleato con cui costruire il conflitto del ventunesimo secolo. La Carta di Lampedusa, con tutte le difficoltà di una sintesi ancora da costruire, annuisce a questo, una ragione in più per farla propria, evitando ogni elemento di sterile tatticismo.