Declino della scuola pubblica e precarizzazione generalizzata

studenti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Edoardo Puglielli tratto da corrierepeligno.it

La «costituzione» neoliberista, spiega Burgio, si fonda essenzialmente su tre pilastri: sul piano industriale, la delocalizzazione produttiva (che, grazie alla rivoluzione informatica e dei trasporti, ha unificato il mercato mondiale del lavoro e offerto al capitale la possibilità di giocare su enormi differenze salariali); sul piano finanziario, la deregolazione (che ha permesso l’impiego speculativo delle risorse in precedenza destinate all’economia produttiva) e la liberalizzazione dei movimenti di capitale (che ha unificato i mercati speculativi riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria degli Stati); sul piano politico-istituzionale, l’accentramento dei poteri negli esecutivi (sia in ambito nazionale che nel contesto continentale europeo), che ha permesso la direzione tecnocratica dei processi in simbiosi con le oligarchie economiche [A. Burgio, Fascino e illusioni della democrazia diretta, 2013]. Di qui la continua applicazione di politiche atte a non interrompere l’immenso drenaggio di ricchezza, funzioni direttive e poteri dal lavoro al capitale e dal pubblico al privato; la sistematica aggressione alla dignità del lavoro (precarizzando, flessibilizzando, smantellando garanzie e tutele giurisdizionali faticosamente conquistate in secoli di lotte sociali e politiche); la privatizzazione di imprese e servizi pubblici; il continuo taglio della spesa sociale (e non genericamente della spesa pubblica, che invece cresce a ritmi costanti); la mercificazione di opportunità che in un recente passato erano state tradotte in diritti dai sistemi di welfare.

Ciò che non era merce o che aveva cessato di essere merce torna ad essere ri-colonizzato dalla logica mercantile. Acqua, ambiente, natura, cibo, salute, patrimonio storico-artistico, trasporti, ‘beni comuni’ e tutto ciò che era ricchezza pubblica non alienabile e protetta dal campo d’azione del profitto viene oggi trasformato in un grande business mediante un processo di privatizzazione, aziendalizzazione e mercificazione senza precedenti. Questo processo coinvolge direttamente anche l’istruzione. «Le scuole» – sosteneva Friedman più di mezzo secolo fa – «saranno più efficienti se saranno sottoposte alle leggi del mercato capitalistico e, come tutte le aziende, entreranno in concorrenza le une con le altre per attirare i loro clienti: gli studenti» [M. Friedman, The Role of Government in Education, 1955]. Il progetto di Friedman si va via via realizzando. L’idea è quella di «eliminare la gestione pubblica delle scuole». L’istruzione dovrebbe «essere fornita tanto da imprese private a fini di lucro quanto da organizzazioni no profit. Il ruolo del governo si limiterebbe ad accertarsi che le scuole soddisfino determinati requisiti minimi, come l’inclusione di un minimo di contenuti comuni nei propri programmi, esattamente come oggi le autorità si assicurano che i ristoranti rispettino gli standard igienici minimi» [M. Friedman, Capitalismo e libertà, 1962].

Subordinata alle leggi della profittabilità, l’istruzione viene progressivamente sottratta alla sua funzione sociale e democratica di trasmettere conoscenza a tutti i cittadini. Il grande rischio, spiega Augé, è che «l’umanità di domani si divida tra un’aristocrazia del sapere e dell’intelligenza e una massa ogni giorno meno informata del valore della conoscenza. Questa disparità riprodurrà su scala sempre più grande la disuguaglianza delle condizioni economiche» [M. Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, 2009]. Le trasformazioni in atto, infatti, ridefiniscono le finalità e gli obiettivi dei processi educativi di massa. Il neoliberismo, nella misura in cui dissolve l’essenza della cittadinanza democratica e pietrifica la mobilità sociale fondata sul merito, necessita unicamente di individui ben addomesticati a vendersi continuamente come merce più attraente e desiderabile delle altre in un mercato del lavoro sempre più deregolamentato in cui – liberisticamente – chi è più debole non sopravvive. Per questi individui non sono più richiesti solidi curricoli formativi ma percorsi educativi di breve durata, corsi flessibili, seminari di pochi giorni, kit di autoapprendimento facili da usare e disponibili in qualsiasi punto vendita di videogiochi. «I tipi di competenze richiesti per praticare occupazioni flessibili», spiega Bauman, «non comportano un apprendimento sistematico e a lungo termine; più frequentemente, essi trasformano in svantaggio un corpo logicamente coerente e ben conformato di capacità e abitudini acquisite, che un tempo costituiva una risorsa» [Z. Bauman, L’istruzione nell’età postmoderna, 2000]. In questo senso, continua il sociologo, il ‘successo’ degli uomini postmoderni «dipende dalla velocità con cui riescono a sbarazzarsi di vecchie abitudini piuttosto che da quella con cui ne acquisiscono di nuove», dalla capacità di adattarsi con facilità ad esperienze sempre nuove, frammentarie, prive di continuità e di direzionalità.

Il tipo d’uomo necessario alla produzione e alla riproduzione dell’ordine neoliberista è quello che Sennet ha definito «uomo flessibile» [R. Sennet, L’uomo flessibile, 1999], un uomo a cui è richiesta l’interiorizzazione incondizionata della disciplina imposta dal principio di competitività globale, la massima subordinazione alle esigenze dell’ordine produttivo e la capacità di riciclarsi e di rimodellarsi in modo permanente attraverso un lavoro sempre più flessibile e precario. Ad essere fortemente precarizzato e flessibilizzato è oggi il lavoro cognitivo, trasformato dalla rivoluzione informatica in forza-lavoro estremamente duttile e sempre pronta ad adeguarsi alle esigenze della produzione. Se fino ad un recente passato il lavoratore intellettuale disponeva del pieno dominio sul proprio tempo di vita e di lavoro, oggi la forza-lavoro mentale è sottoposta a precarizzazione dilagante, despecializzazione, massima instabilità lavorativa e sociale. Per la gran parte di questi lavoratori è pressoché sparita la certezza di essere depositari di una professione. Essi sono costretti a cedere all’acquirente piena disponibilità sia temporale che psicologica in cambio di salari spesso vicini alla pura sussistenza. «Al privilegio sociale ed economico del ruolo intellettuale si sostituiscono instabilità, precariato e stipendi da sussistenza; al precedente padroneggiamento del proprio tempo di lavoro e di vita, la totale disponibilità cronologica e psicologica richiesta dai nuovi mestieri. Finisce, o tende a finire, una volta per tutte l’illusione di possedere una professione – come l’illusione di possedere un mestiere, un’abilità manuale specifica, terminò con la resa degli artigiani al regime industriale di fabbrica. Allora per quegli artigiani, oggi (e ancor più in prospettiva) per l’intellettuale-massa resta solo la capacità di erogare lavoro produttivo in senso capitalistico, astratto: allora prevalentemente manuale, oggi mentale. Alla ‘libera’ professione si sostituiscono il lungo curriculum del precariato, tendenzialmente coincidente, per molti, con la stessa vita produttiva, e lo sfondamento verso il basso del confine tra vecchia professione e nuovi mestieri salariati: da medico a ‘curandero’ tuttofare, da architetto/ingegnere a disegnatore pagato a cottimo, da matematico a programmatore saltuario, da psicologo ad assistente domiciliare, da giornalista a impiegato passa-veline di agenzia. Svanisce la certezza di poter disporre appieno della propria mente, delle sue ideazioni, del proprio tempo extralavorativo. Il Capitale», spiega Bernocchi, «non si accontenta più né delle braccia, né del prodotto mentale, né accetta più il loro uso a tempo determinato: vuole l’anima del lavoratore, la sua partecipazione globale al processo di valorizzazione, e a tempo pieno. Qualità totale in tempo totale» [P. Bernocchi, Dal sindacato ai Cobas, 1993].

*Docente di Filosofia e Scienze umane nei licei