di Andrea Ricci * docente di Economia internazionale all’Università di Urbino
Nell’ultimo semestre i mercati finanziari europei hanno vissuto una situazione di tranquilla bonaccia. Gli spreads tra i titoli di Stato dei PIIGS e quelli della Germania, pur se storicamente elevati, si sono assestati su valori ben inferiori a quelli registrati nel biennio 2011-12. Per l’Italia il differenziale tra BTP e Bund decennali ha oscillato intorno a quota 270, circa la metà del livello toccato nei momenti più acuti della crisi. Gli indici azionari sono ovunque aumentati nel continente, con la Borsa italiana in testa al gruppo, avendo incrementato la propria capitalizzazione di oltre il 30% nel corso dell’ultimo anno. Di fronte a queste rassicuranti notizie si è via via smorzato nei media l’allarme per un imminente crollo dell’euro. Rimane alta la preoccupazione per il debito pubblico, ma come dato strutturale di lungo periodo, destinato comunque a condizionare le politiche economiche dei prossimi anni.
Stridente è la contraddizione con l’andamento dell’economia reale, che invece ha visto peggiorare tutti gli indicatori, primi fra tutti quelli relativi al tasso di disoccupazione e al tasso di crescita della produzione. In Italia gli ultimi dati sul calo delle esportazioni, dopo mesi d’incremento della domanda estera che aveva generato incauti ottimismi, appaiono particolarmente preoccupanti. Segnali drammatici di una precipitazione della crisi sociale si colgono quotidianamente nelle notizie di cronaca. In tale situazione, non solo attenti osservatori, ma ormai anche autorevoli responsabili delle politiche economiche europee, come ad esempio il ministro dell’Economia italiano ed ex direttore generale della Banca d’Italia, Saccomanni, hanno parlato esplicitamente negli ultimi giorni del rischio di una nuova bolla finanziaria. In questo scenario, pensare che la questione del crollo dell’euro sia ormai alle nostre spalle è quantomeno imprudente e questa convinzione deriva da un’errata comprensione delle cause strutturali che stanno dietro alla crisi monetaria europea.
La divaricazione tra gli andamenti finanziari e gli andamenti reali dell’economia europea (e italiana in particolare) sono il frutto delle politiche monetarie fortemente espansive condotte, attraverso strumenti non convenzionali, dalle principali banche centrali. BCE, Fed, Bank of Japan e Bank of England hanno inondato nell’ultimo anno i mercati finanziari con un’enorme massa di liquidità, che in assenza di prospettive di profitto nel settore industriale, si è riversata nell’acquisto da parte degli operatori bancari e istituzionali di titoli obbligazionari e azionari. Di nuovo, e in forma ancor più gigantesca rispetto alle politiche monetarie accomodanti dell’era Greenspan, è con la costruzione di una piramide di debiti che si stanno sostenendo i mercati finanziari e le grandi banche globali.
Questa enorme massa liquida fluttuante può in qualsiasi momento prendere direzioni opposte a quelle finora intraprese e scatenare di nuovo, e con una violenza ancor più devastante, un attacco speculativo contro l’euro. Le probabilità che ciò accada, in assenza di cambiamenti strutturali nella politica economica europea, non sono trascurabili, perché ne esistono le condizioni oggettive. Quando ciò accadrà dipende invece dalle decisioni soggettive di un numero ristretto di operatori finanziari globali. Certamente, l’approssimarsi delle elezioni tedesche, previste per il prossimo 22 settembre, rappresenta un momento particolarmente critico perché può essere forte il desiderio di condizionarne i risultati attraverso manovre finanziarie, in un senso o nell’altro a seconda delle rispettive convenienze strategiche dei capitali finanziari in concorrenza.
Un eventuale nuovo attacco speculativo contro l’euro sarebbe stavolta ben più difficile da respingere perché la BCE ha già utilizzato gran parte del proprio arsenale a disposizione. Soltanto una radicale modifica dei compiti istituzionali della BCE che, in completa rottura con il suo atto costitutivo e la sua storia, consentisse il finanziamento monetario diretto dei deficit e dei debiti pubblici dei Paesi membri potrebbe forse essere efficace, se accompagnato da concrete e immediate misure d’integrazione fiscale europea. Questo passaggio tuttavia potrebbe essere compiuto soltanto in seguito ad un accordo politico dei Governi e dei Parlamenti europei di ridisegno complessivo dell’architettura istituzionale e dei compiti dell’Unione Monetaria Europea nel senso della costituzione di uno Stato federale. Una tale prospettiva appare però assolutamente irrealistica, dato il prevalere e addirittura l’approfondirsi degli egoismi nazionali non solo nelle classi dirigenti ma nei popoli europei.
Le cause profonde della crisi dell’euro sono insite nella sua stessa costruzione iniziale. L’idea di dotare 11 Paesi, poi divenuti addirittura 17, di una moneta unica in presenza di enormi divergenze nella struttura delle loro economie reali, senza contemplare meccanismi automatici di integrazione e redistribuzione fiscale, come avviene per qualunque altra moneta, è risultata folle. D’altra parte non era questo il progetto iniziale dichiarato per una parte delle classi dirigenti europee, come quella italiana. L’euro doveva rappresentare soltanto il primo passo verso gli Stati Uniti d’Europa. L’oltranzismo europeista, illusorio e velleitario, è stato la principale fonte di legittimazione delle corrotte e decadenti classi dirigenti italiane nella ricerca di un consenso politico e sociale dopo il crollo della Prima Repubblica e la fine della divisione del mondo in blocchi. Infatti, accanto a corposi interessi materiali di una parte della borghesia italiana, la retorica dell’euro ha funto da collante politico-culturale per tenere insieme un Paese sempre più alla deriva, in preda alla frammentazione territoriale, sociale e politica e alla devastazione culturale e morale delle sue classi dirigenti.
I passi successivi alla nascita dell’euro non si sono però realizzati perché è apparso evidente che la Germania, e il blocco di stati satelliti che ruotano intorno ad essa, non perseguivano lo stesso obiettivo. Con l’euro la Germania ha ottenuto due risultati storici: il via libera politico e diplomatico alla propria unificazione e l’eliminazione di due strumenti fondamentali, tra loro interconnessi, di politica economica per i Paesi mediterranei (Italia e Francia in particolare), come la politica monetaria e la manovra sul tasso di cambio. Nelle discussioni intorno all’euro, capita spesso di assistere al levarsi di alti strali da parte dei coriacei difensori della moneta unica contro lo spettro della svalutazione, ricorrente negli ultimi venti anni di vita della lira. Si dimentica però che il tasso di cambio non è altro che un prezzo, più o meno amministrato dalle autorità di politica economica, pienamente rispondente al normale funzionamento di un’economia di mercato. Le sue fluttuazioni, spontanee o prodotte, servono per riallineare andamenti divergenti di fondamentali variabili economiche tra diversi Paesi. La fissazione irrevocabile di un tasso di cambio richiede necessariamente meccanismi alternativi che svolgano la stessa funzione. L’alternativa liberista al tasso di cambio, utopica e mai realmente esistita in nessuna epoca e in nessun posto, è la completa e istantanea flessibilità dei prezzi di tutti i beni e servizi, a cominciare dai salari. L’altra alternativa è quella seguita da tutte le monete esistenti ed esistite in passato, cioè la piena integrazione fiscale all’interno di uno Stato unitario, in cui operano meccanismi di redistribuzione sociale e territoriale delle risorse.
Con l’euro si è scelta, contro ogni logica, una “terza via”, quella di “una moneta senza Stato”. Ciò che ne è risultato è stato l’affermarsi dell’egemonia politica ed economica dello Stato più forte, la Germania, sul resto d’Europa spazzando via in un colpo solo e senza spargimenti di sangue, il precario equilibrio che dalla pace di Westfalia (1648) in poi aveva costituito il sacro principio delle diplomazie europee. Dapprima esercitata in forme morbide, con lo scoppio della crisi finanziaria l’egemonia tedesca è andata assumendo forme sempre più brutali, sino a sfociare in manifestazioni esplicite di neocolonialismo come nel caso greco, non dissimili da quelle esercitate dall’imperialismo USA nel Paesi dell’America Latina.
Di fronte a questa situazione, sempre più instabile, il problema dell’euro non può più essere eluso da parte delle forze della sinistra europea e italiana. Da questo punto di vista, non appare di buon auspicio la sconfitta all’interno della Linke tedesca di Oskar Lafontaine, che recentemente aveva sostenuto il superamento dell’euro e la necessità di un nuovo sistema monetario europeo. Non è più adeguato all’evolversi della situazione reale affermare la necessità di una svolta nelle politiche europee, abbandonando la logica dell’austerità e del rigore finanziario e le sovrastrutture istituzionali che all’interno dell’Unione Europea la sorreggono, senza affrontare la questione euro. Questa della svolta di politica economica è stata una partita aperta fino allo scoppio della crisi finanziaria globale del 2008. La partita si è chiusa con una sconfitta, perché le forze della sinistra europea, nelle diverse collocazioni di volta in volta assunte, non sono riuscite ad imporre l’abbandono delle politiche neoliberiste in Europa né ad impedirne il rincrudimento. Oggi il paradosso di questa posizione è che essa può realizzarsi soltanto se prima salta l’euro, perché l’euro reale, non quello immaginato, è un impedimento strutturale per politiche economiche alternative. Di ciò, sia pure in forma rozza, sta crescendo una consapevolezza di massa in Grecia, come in Italia e in tutti i Paesi più duramente colpiti dalla crisi. La vecchia, consolidata posizione, un tempo espressa nello slogan “Si all’euro, No a Maastricht”, che anch’io personalmente, come responsabile economico nazionale di Rifondazione Comunista per tanti anni ho contribuito a diffondere e ad articolare, non risulta più comprensibile, appare essa sì una scorciatoia velleitaria per sfuggire ai problemi e alle responsabilità reali e concrete. Per usare categorie gramsciane, quella linea era adatta a una fase di “guerra di posizione” e non ad una fase di “guerra di movimento”, come quella in cui la crisi sistemica del capitalismo ci ha condotti.
Una valuta non è mai semplicemente uno strumento neutro che può essere indifferentemente utilizzato per servire da sfondo a diversi modelli sociali. Nel sistema capitalistico la moneta è la sintesi finale, la più astratta e quindi la più complessa, di un ordine sociale storicamente determinato, frutto di sedimentazioni successive che costituiscono la concreta configurazione di classe realmente esistente. È ovvio che il crollo dell’euro (perché questo avverrebbe se un Paese delle dimensioni dell’Italia decidesse di uscirne) non equivale alla “vittoria finale”, né essa produrrà sicuramente immediati effetti positivi per le classi popolari. È ovvio che molto dipenderà da come avverrà e da quali saranno le forze trainanti di questo processo. Ciò che è certo è che la fine dell’euro ridislocherebbe le forze su scala europea e mondiale e aprirebbe nuovi scenari in cui svolgere il conflitto politico e sociale, che oggi in Europa appare chiuso a ogni ipotesi progressiva.
Il crollo dell’euro è oggi nell’ordine delle cose possibili, perché ne sono date le condizioni oggettive. La sinistra europea, e paradossalmente la sua componente oggi più disastrata, quella italiana, si trova di fronte ad un passaggio strategico cruciale. Essa, indipendentemente dalle sue volontà, deve decidere come collocarsi in questo scenario potenziale se vuole continuare ad esistere come forza attiva e non solo come scoria di un passato glorioso. Il nodo dell’euro è posto dalla storia, non dalle nostre elucubrazioni. Non rimane più molto tempo per scioglierlo.