il rapporto deficit/pil al 3% una follia senza nessuna base economica

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Di Roberto Santilli giornalista di Abruzzoweb.it

Superare il rapporto deficit/pil fissato al 3 per cento.Questa è la missione che molti politici italiani affermano di voler portare avanti e che ovviamente riguarda anche L’Aquila terremotata, i cui fondi che mancano per la ricostruzione completa dipendono in tutto e per tutto dall’abbattimento di quel vincolo.In parole povere, c’è da sedersi ai tavoli della Commissione Europea e far pressione a chi comanda, a chi comanda sul serio, affinché il famosissimo tetto massimo venga superato.

Perché il Parlamento non conta nulla, è un teatrino a uso e consumo dei beoni che credono di contare qualcosa in un posto in cui per legge si viene presi a pesci in faccia.In parole ancora più povere, lo Stato italiano deve lottare per le briciole dopo che qualcuno gli ha sottratto il pane.Ormai lo sanno pure i sassi.Va ricordato che per aver aderito all’Unione Europea, l’Italia ha accettato una valanga di clausole capestre come quella, devastante, dell’utilizzo di una moneta a debito da prendere in prestito dai privati, come se per respirare cedessimo i nostri polmoni a uno sconosciuto e poi gli chiedessimo di prestarceli a tassi usurai.

Una follia, specie se si conosce il corretto funzionamento del denaro che nulla ha a che vedere con la versione europea della moneta.Così come è una follia far passare per “normale” il concetto di battaglia, di lotta, quando c’è di mezzo il rapporto deficit/pil al 3 per cento, cioè quello strumento che impedisce agli Stati – letteralmente evirati, cioè non più sovrani: devo andare in bagno, chiedo permesso a un tale che non conosco e devo anche sperare che mi presti ciò che prima era mio – di fare gli Stati, cioè di spendere a deficit per il settore pubblico e per il settore privato.

Che il 3 per cento fosse un numero assolutamente privo di basi economiche degne, è stato detto e scritto da fior di econimisti.E le prove storiche sono ormai inconfutabili, non serve più neanche un premio Nobel come Paul Krugman – che nel 2011 scriveva sul New York Times “Adottando l’Euro, l’Italia si è ridotta a un Paese da Terzo Mondo” – per dimostrare il fallimento, certo voluto e studiato a tavolino al di là della propaganda di facciata – di un’Unione Europea che di fatto ha annientato l’Europa, la stessa Europa che esisteva ben prima di un “sogno” dato in pasto a centinaia di milioni di persone per la felicità di poche migliaia di speculatori.Ma la follia in questo Continente non ha limiti.

Recentemente un signore che risponde al nome di Guy Abeille, ex funzionario francese e creatore del 3 per cento preso come modello dai tecnocrati di Bruxelles per imporre il cappio intorno al collo degli Stati come detto già evirati, ha dichiarato senza alcun problema che si è trattato di un numero preso a caso.Insomma, ha ammesso pubblicamente una truffa che è diventata legge. E che sta spazzando via il presente e il futuro di intere nazioni.E allora perché fare una battaglia su queste basi?Perché sedersi a un tavolo di gente che è autorizzata per legge a barare a poker per chiedere a quella stessa gente di lasciarci vincere almeno una mano?Che senso ha? Che diavolo significa?Perché ridursi a tanto?Forse perché noi italiani siamo un popolo di spendaccioni e di corrotti?Oppure perché siamo tangentari di professione?Probabilmente perché c’è l’evasione fiscale, che per capirci in questo periodo storico salva ad esempio le piccole e medie imprese?Perché c’è la Mafia? Sarà mica colpa della solita casta?Signore e signori, resettate.Quei ‘capitoli’ c’erano anche prima.Anche prima che si facesse largo un cancro capace di sterminare un Continente.

Quel cancro si chiama Euro.E il cancro o lo uccidi, o lui uccide te.A meno che non abbiate accettato l’idea che distruggendo la Terra si può finalmente distruggere il male che c’è sulla Terra.Se proprio non vi va di capirlo e siete convinti che l’Italia debba pagare colpe tremende e farsi guidare dai giusti e limpidi tedeschi, sappiate che in quel tribunale si fa carne di porco.E tra i Piigs, tra i maiali d’Europa, ci siete anche voi.

Nessun futuro per L’Aquila nell’Europa della Merkel

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Di Roberto Santilli giornalista di Abruzzoweb

 

L’Europa muore sotto i colpi di un manipolo di individui con un potere immenso tra le mani. E le genti d’Europa nella maggior parte dei casi sono impegnate a curare il giardinetto fuori casa (o a occuparsi, nei momenti ‘morti’, del dannosissimo gioco del calcio come fa il sottoscritto), un metro quadrato di spazio ancora per poco respirabile in mezzo a un disastro economico da star male per decenni, convinte, o illuse, di potersi salvare le chiappe, di riuscire a tenersi a distanza di sicurezza dalla tempesta. È impossibile riassumere in poche righe le motivazioni, psicologiche prima di tutto, che impediscono a milioni di persone di considerare il tracollo economico e sociale europeo come l’unico frutto possibile di quell’albero malato, perché malato è stato voluto e cresciuto, chiamato Eurozona, da cui o si esce o si resta schiacciati, nessuna via di mezzo è possibile.

Ma se si dà un’occhiata all’Aquila terremotata, si può capire più di qualche passaggio. La città peggiora ogni giorno di più nonostante qualche cantiere, anche importante, sia partito, una dinamica che somiglia in modo inquietante a ciò che succede nelle realtà economicamente indecenti ma comunque ‘alla moda’ e dal bicchiere spacciato come mezzo pieno: lavori come uno sguattero (se lavori), puoi permetterti una bella tv e un bel paio di pantaloni, ma dormi in un tugurio e non hai accesso a ciò che conta di più nella vita: una casa tua, una comunità sana di cui sentirti parte, un lavoro che ti permetta di crescere, di migliorare, di non ammalarti o di curarti senza perdere tutto ciò che hai se ti ammali e di godere, domani, di una vecchiaia decente, guardando i tuoi figli fare ciò che hai fatto tu qualche anno prima. L’Aquila questo è. L’Aquila di questi anni, come l’Italia di questi anni.

Quando lo sviluppo se ne va per affari suoi, quando è una questione non coordinata e aperta a tutti, chi resta fuori dal gioco , sostanzialmente, muore, isolandosi e convincendosi che un misero fazzoletto riciclato non si sa bene come sia in fondo meglio di niente e che quelle regole ormai cristallizzate siano giuste e impossibili da cambiare. Del resto, se tutti chiedono un affitto di 600 euro per una caverna e se quella caverna oggi la chiami casa, perché ribellarsi?. Oppure, nei casi addirittura peggiori, lanciandosi in battaglie che in un momento storico come questo non sono prioritarie e altro non fanno che rimescolare le acque, impedendo la comprensione radicale, completa, assoluta, di ciò che accade sopra di noi e quindi da noi, qui, a casa nostra. Andiamo più spediti. Qualche giorno fa Guy Abeille, il funzionario francese che ha inventato il vincolo del 3 per cento nel rapporto deficit/pil, il vincolo per cui L’Aquila intesa come città con un futuro degno di essere chiamato tale, non un’accozzaglia di monumenti a uso e consumo di quattro randagi fermi al presente e al passato, ha ammesso: “Serviva un numero facile da ricordare da sbattere in faccia ai ministri francesi che chiedevano soldi”.

Insomma, l’elemento macroeconomico che sta polverizzando le democrazie europee (L’Aquila è in Europa e dipende dall’Europa, lo sapevate?), democrazie imperfette certo ma non per questo da strangolare, è una balla colossale. Una frase del genere dovrebbe provocare una rivolta da leggenda, invece in Italia, più che altrove, si sprecano energie, tempo, idee, dietro alle pagliacciate degli sprechi pubblici e delle altre diavolerie inventate dai servi dei demoni europei e generalmente sovranazionali. Un sottosegretario appena entrato sulla scena, al contrario, conferma: il 3 per cento non si sfora.

Più Europa, più nazismo, più crimini. Chiaro, sì? E intanto si continua a ignorare, a questo punto non importa più se consapevolmente, la differenza fra un cancro e un prurito alle parti basse. Così come si continua a ignorare il funzionamento di uno Stato con una sua sovranità monetaria e di bilancio, (l’Euro ha distrutto i fondamentali della nostra democrazia, non una puttanella in quel di Arcore), puntando il dito contro ciò che mai, mai, può annientare l’economia di un Paese, vedi auto blu, evasione fiscale, quella che oggi salva le aziende italiane altrimenti destinate a una corda appesa a una trave), e altre sciocchezze assortite. In conclusione.

Era il 24 giugno del 2013. Al dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia, lo staff tecnico dell’allora vice ministro Stefano Fassina, rispondeva, lo riassumiamo, all’economista statunitense Warren Mosler: le sue proposte con cui reperire i circa 6 miliardi che servono per rimettere in piedi L’Aquila, non coincidono con gli accordi che il governo di Enrico Letta ha preso con la Germania di Angela Merkel. Erano proposte che al rapporto deficit/pil, quello di cui sopra, quello fissato al 3 per cento senza alcuna motivazione scientifica, facevano forse un po’ di solletico, cioè non lo toccavano sul serio, anzi, permettevano il rientro di quattrini nelle casse dello Stato. L’ennesimo governo non eletto, abusivo, antidemocratico e insolente, si è insediato in Italia, promettendo agli italiani favolette senza valore o ricette economiche che porteranno l’Italia, definitivamente, a una condizione kosovara. Da quel giugno del 2013, cui si era arrivati sanguinanti a causa dei colpi inferti da un sadico cadavere ambulante servo di criminali in giacca e cravatta come Mario Monti, che nell’unica visita all’Aquila non si è beccato manco un uovo in faccia, le cose sono decisamente peggiorate.

Il ‘nuovo che avanza’ Matteo Renzi è costretto, per carriera, a fare lo spogliarello davanti a Hitler con la gonna, la signora Merkel. I voti ai negri d’Europa, noi tutti, li dà quella bionda là. Questa è la realtà dei fatti. Ma all’Aquila c’è chi preferisce dannarsi l’anima per inchieste patetiche e ombre del potere che conta sul serio e che ci uccide giorno dopo giorno. Poi arriva un sottosegretario alla presidenza del Consiglio come Graziano Delrio, che senza indugi fa sapere agli strangolatori di Francoforte e Bruxelles che l’Italia farà la brava e non si azzarderà a sforare quel maledetto e fasullo 3 per cento. In manicomio non saprebbero da dove cominciare.

Amen.

Il nodo dell’euro non può più essere eluso

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di Andrea Ricci * docente di Economia internazionale all’Università di Urbino

 

Nell’ultimo semestre i mercati finanziari europei hanno vissuto una situazione di tranquilla bonaccia. Gli spreads tra i titoli di Stato dei PIIGS e quelli della Germania, pur se storicamente elevati, si sono assestati su valori ben inferiori a quelli registrati nel biennio 2011-12. Per l’Italia il differenziale tra BTP e Bund decennali ha oscillato intorno a quota 270, circa la metà del livello toccato nei momenti più acuti della crisi. Gli indici azionari sono ovunque aumentati nel continente, con la Borsa italiana in testa al gruppo, avendo incrementato la propria capitalizzazione di oltre il 30% nel corso dell’ultimo anno. Di fronte a queste rassicuranti notizie si è via via smorzato nei media l’allarme per un imminente crollo dell’euro. Rimane alta la preoccupazione per il debito pubblico, ma come dato strutturale di lungo periodo, destinato comunque a condizionare le politiche economiche dei prossimi anni.

 

Stridente è la contraddizione con l’andamento dell’economia reale, che invece ha visto peggiorare tutti gli indicatori, primi fra tutti quelli relativi al tasso di disoccupazione e al tasso di crescita della produzione. In Italia gli ultimi dati sul calo delle esportazioni, dopo mesi d’incremento della domanda estera che aveva generato incauti ottimismi, appaiono particolarmente preoccupanti. Segnali drammatici di una precipitazione della crisi sociale si colgono quotidianamente nelle notizie di cronaca. In tale situazione, non solo attenti osservatori, ma ormai anche autorevoli responsabili delle politiche economiche europee, come ad esempio il ministro dell’Economia italiano ed ex direttore generale della Banca d’Italia, Saccomanni, hanno parlato esplicitamente negli ultimi giorni del rischio di una nuova bolla finanziaria. In questo scenario, pensare che la questione del crollo dell’euro sia ormai alle nostre spalle è quantomeno imprudente e questa convinzione deriva da un’errata comprensione delle cause strutturali che stanno dietro alla crisi monetaria europea.

 

La divaricazione tra gli andamenti finanziari e gli andamenti reali dell’economia europea (e italiana in particolare) sono il frutto delle politiche monetarie fortemente espansive condotte, attraverso strumenti non convenzionali, dalle principali banche centrali. BCE, Fed, Bank of Japan e Bank of England hanno inondato nell’ultimo anno i mercati finanziari con un’enorme massa di liquidità, che in assenza di prospettive di profitto nel settore industriale, si è riversata nell’acquisto da parte degli operatori bancari e istituzionali di titoli obbligazionari e azionari. Di nuovo, e in forma ancor più gigantesca rispetto alle politiche monetarie accomodanti dell’era Greenspan, è con la costruzione di una piramide di debiti che si stanno sostenendo i mercati finanziari e le grandi banche globali.

 

Questa enorme massa liquida fluttuante può in qualsiasi momento prendere direzioni opposte a quelle finora intraprese e scatenare di nuovo, e con una violenza ancor più devastante, un attacco speculativo contro l’euro. Le probabilità che ciò accada, in assenza di cambiamenti strutturali nella politica economica europea, non sono trascurabili, perché ne esistono le condizioni oggettive. Quando ciò accadrà dipende invece dalle decisioni soggettive di un numero ristretto di operatori finanziari globali. Certamente, l’approssimarsi delle elezioni tedesche, previste per il prossimo 22 settembre, rappresenta un momento particolarmente critico perché può essere forte il desiderio di condizionarne i risultati attraverso manovre finanziarie, in un senso o nell’altro a seconda delle rispettive convenienze strategiche dei capitali finanziari in concorrenza.

 

Un eventuale nuovo attacco speculativo contro l’euro sarebbe stavolta ben più difficile da respingere perché la BCE ha già utilizzato gran parte del proprio arsenale a disposizione. Soltanto una radicale modifica dei compiti istituzionali della BCE che, in completa rottura con il suo atto costitutivo e la sua storia, consentisse il finanziamento monetario diretto dei deficit e dei debiti pubblici dei Paesi membri potrebbe forse essere efficace, se accompagnato da concrete e immediate misure d’integrazione fiscale europea. Questo passaggio tuttavia potrebbe essere compiuto soltanto in seguito ad un accordo politico dei Governi e dei Parlamenti europei di ridisegno complessivo dell’architettura istituzionale e dei compiti dell’Unione Monetaria Europea nel senso della costituzione di uno Stato federale. Una tale prospettiva appare però assolutamente irrealistica, dato il prevalere e addirittura l’approfondirsi degli egoismi nazionali non solo nelle classi dirigenti ma nei popoli europei.

 

Le cause profonde della crisi dell’euro sono insite nella sua stessa costruzione iniziale. L’idea di dotare 11 Paesi, poi divenuti addirittura 17, di una moneta unica in presenza di enormi divergenze nella struttura delle loro economie reali, senza contemplare meccanismi automatici di integrazione e redistribuzione fiscale, come avviene per qualunque altra moneta, è risultata folle. D’altra parte non era questo il progetto iniziale dichiarato per una parte delle classi dirigenti europee, come quella italiana. L’euro doveva rappresentare soltanto il primo passo verso gli Stati Uniti d’Europa. L’oltranzismo europeista, illusorio e velleitario, è stato la principale fonte di legittimazione delle corrotte e decadenti classi dirigenti italiane nella ricerca di un consenso politico e sociale dopo il crollo della Prima Repubblica e la fine della divisione del mondo in blocchi. Infatti, accanto a corposi interessi materiali di una parte della borghesia italiana, la retorica dell’euro ha funto da collante politico-culturale per tenere insieme un Paese sempre più alla deriva, in preda alla frammentazione territoriale, sociale e politica e alla devastazione culturale e morale delle sue classi dirigenti.

 

I passi successivi alla nascita dell’euro non si sono però realizzati perché è apparso evidente che la Germania, e il blocco di stati satelliti che ruotano intorno ad essa, non perseguivano lo stesso obiettivo. Con l’euro la Germania ha ottenuto due risultati storici: il via libera politico e diplomatico alla propria unificazione e l’eliminazione di due strumenti fondamentali, tra loro interconnessi, di politica economica per i Paesi mediterranei (Italia e Francia in particolare), come la politica monetaria e la manovra sul tasso di cambio. Nelle discussioni intorno all’euro, capita spesso di assistere al levarsi di alti strali da parte dei coriacei difensori della moneta unica contro lo spettro della svalutazione, ricorrente negli ultimi venti anni di vita della lira. Si dimentica però che il tasso di cambio non è altro che un prezzo, più o meno amministrato dalle autorità di politica economica, pienamente rispondente al normale funzionamento di un’economia di mercato. Le sue fluttuazioni, spontanee o prodotte, servono per riallineare andamenti divergenti di fondamentali variabili economiche tra diversi Paesi. La fissazione irrevocabile di un tasso di cambio richiede necessariamente meccanismi alternativi che svolgano la stessa funzione. L’alternativa liberista al tasso di cambio, utopica e mai realmente esistita in nessuna epoca e in nessun posto, è la completa e istantanea flessibilità dei prezzi di tutti i beni e servizi, a cominciare dai salari. L’altra alternativa è quella seguita da tutte le monete esistenti ed esistite in passato, cioè la piena integrazione fiscale all’interno di uno Stato unitario, in cui operano meccanismi di redistribuzione sociale e territoriale delle risorse.

 

Con l’euro si è scelta, contro ogni logica, una “terza via”, quella di “una moneta senza Stato”. Ciò che ne è risultato è stato l’affermarsi dell’egemonia politica ed economica dello Stato più forte, la Germania, sul resto d’Europa spazzando via in un colpo solo e senza spargimenti di sangue, il precario equilibrio che dalla pace di Westfalia (1648) in poi aveva costituito il sacro principio delle diplomazie europee. Dapprima esercitata in forme morbide, con lo scoppio della crisi finanziaria l’egemonia tedesca è andata assumendo forme sempre più brutali, sino a sfociare in manifestazioni esplicite di neocolonialismo come nel caso greco, non dissimili da quelle esercitate dall’imperialismo USA nel Paesi dell’America Latina.

 

Di fronte a questa situazione, sempre più instabile, il problema dell’euro non può più essere eluso da parte delle forze della sinistra europea e italiana. Da questo punto di vista, non appare di buon auspicio la sconfitta all’interno della Linke tedesca di Oskar Lafontaine, che recentemente aveva sostenuto il superamento dell’euro e la necessità di un nuovo sistema monetario europeo. Non è più adeguato all’evolversi della situazione reale affermare la necessità di una svolta nelle politiche europee, abbandonando la logica dell’austerità e del rigore finanziario e le sovrastrutture istituzionali che all’interno dell’Unione Europea la sorreggono, senza affrontare la questione euro. Questa della svolta di politica economica è stata una partita aperta fino allo scoppio della crisi finanziaria globale del 2008. La partita si è chiusa con una sconfitta, perché le forze della sinistra europea, nelle diverse collocazioni di volta in volta assunte, non sono riuscite ad imporre l’abbandono delle politiche neoliberiste in Europa né ad impedirne il rincrudimento. Oggi il paradosso di questa posizione è che essa può realizzarsi soltanto se prima salta l’euro, perché l’euro reale, non quello immaginato, è un impedimento strutturale per politiche economiche alternative. Di ciò, sia pure in forma rozza, sta crescendo una consapevolezza di massa in Grecia, come in Italia e in tutti i Paesi più duramente colpiti dalla crisi. La vecchia, consolidata posizione, un tempo espressa nello slogan “Si all’euro, No a Maastricht”, che anch’io personalmente, come responsabile economico nazionale di Rifondazione Comunista per tanti anni ho contribuito a diffondere e ad articolare, non risulta più comprensibile, appare essa sì una scorciatoia velleitaria per sfuggire ai problemi e alle responsabilità reali e concrete. Per usare categorie gramsciane, quella linea era adatta a una fase di “guerra di posizione” e non ad una fase di “guerra di movimento”, come quella in cui la crisi sistemica del capitalismo ci ha condotti.

 

Una valuta non è mai semplicemente uno strumento neutro che può essere indifferentemente utilizzato per servire da sfondo a diversi modelli sociali. Nel sistema capitalistico la moneta è la sintesi finale, la più astratta e quindi la più complessa, di un ordine sociale storicamente determinato, frutto di sedimentazioni successive che costituiscono la concreta configurazione di classe realmente esistente. È ovvio che il crollo dell’euro (perché questo avverrebbe se un Paese delle dimensioni dell’Italia decidesse di uscirne) non equivale alla “vittoria finale”, né essa produrrà sicuramente immediati effetti positivi per le classi popolari. È ovvio che molto dipenderà da come avverrà e da quali saranno le forze trainanti di questo processo. Ciò che è certo è che la fine dell’euro ridislocherebbe le forze su scala europea e mondiale e aprirebbe nuovi scenari in cui svolgere il conflitto politico e sociale, che oggi in Europa appare chiuso a ogni ipotesi progressiva.

Il crollo dell’euro è oggi nell’ordine delle cose possibili, perché ne sono date le condizioni oggettive. La sinistra europea, e paradossalmente la sua componente oggi più disastrata, quella italiana, si trova di fronte ad un passaggio strategico cruciale. Essa, indipendentemente dalle sue volontà, deve decidere come collocarsi in questo scenario potenziale se vuole continuare ad esistere come forza attiva e non solo come scoria di un passato glorioso. Il nodo dell’euro è posto dalla storia, non dalle nostre elucubrazioni. Non rimane più molto tempo per scioglierlo.