Non so se per ingenuità o perché eternamente romantici, ma a volte non
riusciamo a comprendere la natura del dibattito circa lo sviluppo
turistico del Gran Sasso e dintorni. Risulta sempre più evidente come
l’attuale classe politica, a corto di idee e progettualità, veda ad
ogni piè sospinto una liana a cui attaccarsi. Ma le elite locali tutto
sono tranne che Tarzan: lanciandosi da un albero ad un altro rischiano
(ma rischiamo soprattutto noi e i nostri eredi) di far precipitare
ulteriormente l’attuale fase depressiva che avvolge il nostro
territorio.
Ci sono alcuni aspetti che ruotano intorno a noi e che meglio spiegano
le tendenze di fondo che spesso vogliamo evitare di considerare o di
mettere in relazione tra loro in quanto causa ed effetto delle nostre
scelte.
Lo sfruttamento generalizzato dell’intero pianeta al fine del
raggiungimento di un preteso sviluppo ha prodotto una modificazione
generale del clima, disastri ambientali e situazione
insostenibili che non siamo capaci di gestire.
E’ di questi giorni il rapporto dell’Agenzia Americana sull’Ambiente
che certifica quello che molti di noi sapevano e denunciavano
inascoltati. Ma anche di fronte a tanta evidenza, attraverso il
revisionismo politico e la costruzione forzata di un consenso
generalizzato, i governi preferiscono evitare di affrontare il
problema e men che meno intendono invertire rotta (a parte le
dichiarazioni di buoni propositi dopo qualche calamità).
Le politiche neoliberiste e neocoloniali dell’occidente capitalistico
hanno prodotto una ondata migratoria che preme alle nostre frontiere
per avere lavoro, pane e giustizia che noi stessi, con la guerra e con
le rapine economiche, abbiamo loro sottratto.
Molti dei migranti siriani sono stati costretti a lasciare le zone
interne del paese perché, oltre alla tragicità della guerra, una
siccità fuori dal comune ha di fatto piegato qualsiasi parvenza di
economia agricola di prossimità. Crisi economica e crisi ecologica si
alimentano a vicenda. Recentemente la teoria economica ha riscoperto
il concetto di “stato stazionario”.
L’economista statunitense Laurence Summers, nel novembre 2013, ha parlato di
“stagnazione secolare” in un discorso al Fondo Monetario
Internazionale, per tornare sul tema pochi mesi dopo, nel febbraio
2014, davanti agli economisti d’impresa statunitensi. In verità non si
tratta di una teoria originale ma di un revival perché di “stagnazione
secolare” aveva parlato già nel 1938 l’economista Alvin Hansen
rivolgendosi al presidente degli Stati Uniti. Le novità stanno nella
crisi sistemica mondiale del modo di produrre e nei limiti fisici che
incontra tale modo di produzione.
Ora, tornando nel nostro piccolo mondo, comunque connesso e immerso in
queste macro
contraddizioni, sorgono spontanee alcune domande:
· E’ possibile uscire dalle secche dell’economia “stazionaria”
con interventi come la
cosiddetta “metropolitana di superficie” ? (vi ricordate le fanfare che
accompagnarono l’inizio dei lavori?)
· oppure la realizzazione dello pseudo potenziamento
dell’aeroporto di Preturo che avrebbe dovuto far decollare una città
ulteriormente martoriata dal recente sisma?
Il metodo che oggi si ripropone è il dibattito sugli impianti di
risalita sul Gran Sasso che, appunto, ripercorre strade già viste poi
rivelatesi ampiamente negative sul piano socio-economico e sul piano
ambientale.
In effetti non esiste alcun segnale che indichi una volontà di
intervenire sul come ripopolare i nostri paesi pedemontani e di come
rilanciare una economia agricola silvo-pastorale e turistica che dia
veramente respiro ai giovani ed ai meno giovani in un territori tanto
bello e spettacolare quanto depresso, trascurato e spopolato.
“E’ il terremoto dell’Industrializzazione” forzata e fortemente
contraddittoria che nei vari anni ha sconvolto irrimediabilmente la
campagna povera dell’Abruzzo aquilano e tutti i problemi, nel tempo,
sono stati “risolti” con “l’esodo che si è trasformato in valanga”. Se
la società di ieri non è stata in grado, o non abbia voluto risolvere
il problema non è pensabile e giusto continuare su una strada
sbagliata ancorché cieca.
La difesa dell’ambiente, della biodiversità non è più un vezzo da
intellettuali o di sensibilità da anni ’60 ma si intreccia con un
modello di sviluppo che rompa con le politiche neoliberiste imperniate
tutte sulla logica dell’offerta senza programmazione – peraltro
recentemente invocata in un articolo dell’organo della Confindustria
-, ma soprattutto che rompa con l’utilizzo di soldi pubblici per
favorire imprenditori di opere “usa e getta”.
A ben veder siamo in presenza di uno pseudo mercatismo provinciale e straccione.
In finale vorremmo un diverso modo di gestire i soldi pubblici: con
un occhio che guardi un po’ più lontano del proprio naso e con la
mente impegnata a considerare il territorio come un bene comune .
Il cambiamento dovrebbe postarsi in una allocazione delle risorse che
abbia come momento politico la collettività piuttosto che singoli e
particolari interessi
La sensazione – e molti episodi concreti lo confermano – è che
l’ideologia dominante, con tamburi e fanfare, abbia poco da raccontare
se non mobilitare i fedelissimi per arginare
una crisi di consenso che è più carpito che reale. In un certo senso
fa specie vedere persone che, nel corso della propria storia, aveva
attinto dalla parte migliore della cultura del meridionalismo e oggi è
diventato “sabaudo” e più realista d