di Carlo Formenti
Ricordate i panegirici dei guru della New Economy sulle magnifiche sorti e progressive della “classe creativa”? Erano gli anni Novanta e la bolla speculativa dei titoli tecnologici non era ancora scoppiata. La tesi di fondo era che, così come in passato la proprietà della terra e il controllo sul capitale avevano consentito a due classi sociali – latifondisti e capitalisti – di dominare l’economia, nel futuro immediato sarebbe stato il controllo su conoscenze e informazioni a regalare il potere a ingegneri informatici, sviluppatori, web designer, studiosi di marketing online, fondatori si startup, ecc. vale a dire a tutti coloro che detengono il know how necessario a navigare nei procellosi mari dell’economia di rete.
Di quei sogni è rimasto pochino: l’economia digitale del duemila è dominata da un pugno di grandi imprese monopolistiche e i “creativi” che avrebbero dovuto soppiantarne il management – i pochi che non sono sprofondati nella disoccupazione, o che non sono costretti a sbarcare il lunario nelle catene di subfornitura delle applicazioni per Facebook, Apple e Google o, peggio, che non sono finiti a lavorare per dieci (o meno) dollari l’ora nel terziario arretrato a fianco dei migranti – non sembrano essersi issati (ad eccezione di pochissimi) ai posti di comando.
Al contrario: gli accordi trasversali fra le grandi imprese negano loro persino la libertà di cambiare posto di lavoro ogniqualvolta si presentino migliori opportunità. Come rivela infatti un articolo del New York Times è in corso una causa intentata da 64.000 programmatori contro Apple, Google e altri, i quali, da almeno cinque anni, avrebbero stretto accordi segreti per non assumere professionisti che abbiano lavorato per imprese concorrenti (così se uno lascia Google non potrà mai sperare di trovare lavoro alla Apple o viceversa) allo scopo di non “rubarsi” reciprocamente segreti. Si tratta di una pratica illegale secondo la legge americana, ma di cui sarà difficile dimostrare l’esistenza e che, anche nel caso le vittime ottenessero risarcimenti, sarà ancora più difficile sradicare.
L’interessante è che, secondo lo stesso articolo, la battaglia legale di ingegneri e programmatori non sta affatto riscuotendo la solidarietà degli altri lavoratori, i quali, al contrario, continuano a considerarli una minoranza che gode di privilegi “pagati” dalla maggioranza degli altri lavoratori. Come spiega, per esempio, un articolo dell’Huffington Post le cifre stratosferiche che finiranno nelle tasche dei 50 dipendenti di WhatsApp, la startup comprata per ben tre miliardi di dollari da Facebook, vengono viste come uno scandalo dalle decine di migliaia di altri dipendenti di piccole e medie imprese che sbarcano il lunario per stipendi da fame nelle catene di subfornitura: alla ricchezza di pochissimi fanno da contrappunto le condizioni marginali della stragrande maggioranza dei lavoratori del settore.
Alla vecchia favola in base alla quale le diseguaglianze sono compensate dal fatto che la marea, quando sale, sale per tutti premiando le barchette al pari dei transatlantici, dopo sette anni di crisi catastrofica non crede più nessuno. E a salire è piuttosto il risentimento, come dimostrano le manifestazioni dei cittadini di San Francisco e di Seattle i quali, da qualche mese, hanno cominciato a dare l’assalto ai bus dei dipendenti di Google, Facebook e Microsoft contestando il fatto che i fondi pubblici delle loro città vengano usati per finanziare servizi privati – un risentimento alimentato anche dalla spinta inflattiva che la presenza di questi lavoratori “di lusso” provoca sui prezzi degli affitti e sul costo della vita in generale.
Come già avvenuto in passato, insomma, il conflitto di classe non oppone solo capitale e lavoro, ma anche lavoratori di serie A e lavoratori di serie B.